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Superfici di pietra*


Padiglione di Barcellona di Mies van der Rhoe (foto di Gabriele Lelli)

Il tema e l’interprete
“È Jean Starobinski, attraverso le Le ragioni del testo, a spronarci nel prendere coscienza del nostro tema, a ricercare la “distanza” e la “misura” dell’interpretazione. (1)
In termini generali “superficie” indica la parte visibile di un corpo (architettonico, nel nostro caso) contrassegnata da elementi geometrici quali lunghezza, larghezza e – conseguentemente – da estensione planare. Entità figurale “bidimensionale”, quindi, che delimita il volume, la massa di ogni corpo; da questa definizione, inevitabilmente schematica, parte la nostra esplorazione. Se il tema è quello della superficie litica, lo svolgimento si snoda attraverso il percorso interpretativo della sua restituzione in forma di rivestimento, di ricoprimento di altre materie, di altri elementi dell’organismo costruttivo. In questa direzione di analisi coppie concettuali oppositive – verticalità/orizzontalità, continuità/discontinuità, bidimensionalità/tridimensionalità, monocromismo/policromismo – svolgono il ruolo di catalizzatori della nostra riflessione inevitabilmente selettiva, parzialissima.

Monografismi litici
Mies van der Rhoe con il Padiglione di Barcellona nel 1928 getta le basi del monografismo litico fissandolo in aeternum su superfici continue ed ininterrotte; i giovani architetti “moderni” italiani riprendono ed interpretano in modo originale il tema.
Le scritture sperimentali del Moderno italiano – pur partendo da reminiscenze, sopravvivenze, prestiti – si propongono, al contempo, in forma di archetipi e di modelli per tutto il Novecento consegnando alla ricerca architettonica un contributo del tutto peculiare rispetto alle avanguardie europee. Il tempo degli esperimenti è veloce ed innovativo, quello successivo è più lento e replicativo, indirizzato com’è alla costruzione di una tradizione, di uno statuto capace di imporsi come spirito dell’epoca.
L’anelito delle avanguardie a disegnare architetture in forma astratta, pura, fa riemergere l’antica disputa intellettuale fra idea e materia, fra monocromismo e policromismo. La ricerca della purezza e l’elisione della policromia in favore del colore al singolare innalzano la considerazione delle superfici omogenee dove ogni clamore cromatico è respinto con molta determinazione, ogni elemento plastico è fatto rifluire nel piano.
L’architettura moderna italiana – che pure guarda e attinge al nuovo repertorio di forme, di spazialità, di soluzioni tecniche delle avanguardie d’Oltralpe – si presenta alla fase cruciale degli anni Trenta in modo del tutto singolare nel processo di rinnovamento. Negli edifici più rappresentativi emergono due caratteri dominanti: il primo attiene all’estetica delle superfici litiche, all’immagine stessa dell’architetttura di pietra sospesa fra tensioni innovatrici e atmosfere di tradizione; il secondo investe, più specificatamente, la concezione dello spazio.
Le superfici litiche del Moderno italiano sono ripensate e ridefinite sia in chiave morfologica che di tecnica esecutiva. L’apparente semplicità ed unitarietà di tali involucri è conseguita, nelle opere più eccelse, mediante soluzioni di raffinata precisione. Le connessioni e il raccordo fra ossatura portante e rivestimento, fra pareti continue ed aperture, fra lastre sottili ed elementi speciali in massello, fra piano verticale e suolo, diventano i temi fondanti del progetto architettonico che, in larga parte, diventa un “progetto di superfici”. Lungo questa direzione di ricerca si iscrivono le opere di Giuseppe Terragni, Mario Ridolfi, Adalberto Libera, Luigi Moretti – per fare solo i nomi più emblematici e conosciuti – che si aprono alla stagione del rinnovamento dell’architettura europea con autentici capolavori, capaci di parlare ancora oggi al progetto contemporaneo.


Casa delle Armi a Roma (1933-1936) di Luigi Moretti.

Ci preme evidenziare come nella concretezza dell’architettura costruita la vita di ogni superficie si esprime – a differenza di quanto enunciato in apertura – lontano dall’orizzonte astratto della pura geometria bidimensionale prendendo corpo e visibilità attraverso la materia, investendo lo spazio, confrontandosi e risolvendo la contiguità, la profondità e la logica stratigrafica dei corpi che partecipano alla costruzione dell’opera. Quanto affermato vale soprattutto per le superfici d’elevazione, fondative dell’immagine e della perimetrazione spaziale dell’architettura, mai riconducibili al puro contorno, alla soppressione dello spessore. Nel mondo delle costruzioni sostanzialmente concreto, tridimensionale, il senso delle superfici va inevitabilmente rapportato alla materia, agli strumenti che la lavorarno e la configurano, ai procedimenti di trattamento, di giunzione.
In particolare la vita delle superfici litiche si attua in uno spazio a tre dimensioni; gli specifici “assetti di confine” prendono corpo nella materia tagliata, lisciata o incisa in profondità, ricongiunta attraverso spessori adeguati.
Anche quando le opere sono risolte attraverso la più elementare e pura economia formale la molteplicità dei varchi, delle aperture, dei dislivelli ne corregge ogni ostentata continuità; la stessa luce intrudendosi nell’appiombo parietale ne infrange, con l’ombra, ogni presunta bidimensionalità. Le superifici verticali dell’architettura – alla fine – si mostrano inevitabilmente discontinue, tridimensionali anche quando l’aspirazione degli architetti è rivolta alla purificazione del volume, alla ricerca di complanarità, di monografismo materico. Le sperimentazioni del Moderno italiano non sfuggono a questa condizione.
Ci si trova – a volte – di fronte ad evidenti trasfigurazioni dell’ordine murario come nel caso delle Poste di Piazza Bologna (1933-35) a Roma di Mario Ridolfi dove si assiste alla corrugazione della superficie parietale ondulata attraverso bande litiche in travertino poste ad esercitare un peso, a conferire un senso strutturale alla parete (sia pur d’ordine esclusivamente ottico), a pervenire ad un ritmo di crescita stratigrafica sottolineata da giunti continui significativamente rientrati in profondità. Si assiste in casi come questi alla solidificazione e alla resa plastica – fortemente tridimensionale – della superficie.
Un rispecchiamento dei caratteri murari è proposto anche da Adalberto Libera nel Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi (1937-54) a Roma trasferendo il dispositivo dell’apparecchiatura pseudoisodoma su piani monumentali marmorei, incisi attraverso il reticolo delle fughe orizzontali e verticali. Qui la simulazione della stratigrafia muraria è restituita attraverso modi meno sostanziali rispetto all’opera di Ridolfi. L’ombra dei giunti riesce appena a segnare la superficie di marmo apuano.
Opposto processo trasfigurativo, privo di ogni riferimento all’ordine murario, si può leggere invece nella Casa del Fascio (1932-36) a Como di Giuseppe Terragni, nell’edificio delle Poste (1933-34) a Roma di Adalberto Libera, nella Casa delle Armi (1933-36) a Roma di Luigi Moretti e in molte altre architetture dell’epoca. In tutte queste opere le pareti litiche subiscono una metamorfosi richiamando le lastre di pietra a formare superfici complanari, continue, omogenee, ininterrotte, azzerando ogni espressività delle saldature e dei collegamenti fra i singoli elementi: “superfici ascese a spazialità astratta”, usando le parole di Luigi Moretti. (2) A rendere confrontabili tutte le architetture evocate – caposaldi e modelli di una tradizione a venire – rimane il tessuto espanso e continuo delle superfici leggibili attraverso una evidente proiettività rispetto ai supporti strutturali retrostanti, siano essi di ordine murario o a telaio in calcestruzzo armato, questi ultimi posti a recepire il processo di innovazione delle tecniche costruttive in atto nel Paese
Lo spessore, la tridimensionalità della materia resta, comunque, ben evidente nei punti di discontinuità o di foratura delle pareti, nei dettagli fondamentali degli impaginati di facciata dove le lastre si arrestano a contatto di masselli litici: bordi, confini, raccordi, riquadrature di aperture, basamenti, coronamenti. Qui la profondità della materia litica accoglie, in negativo, l’ombra quale entità valorizzativa dei piani.
L’omogeneità, la continuità, il monografismo litico delle superfici s’impongono a questa data come i caratteri salienti che le avanguardie consegnano alla vicenda contemporanea. Difficile, ancora oggi – per molti – allontanarsi da questa intonazione epocale di monografismo d’esterni che rifluisce, non infrequentemete, verso gli stessi allestimenti d’interni.

Tracce policromatiche
Siamo affascinati dall’idea di allontanarci per un attimo dall’unicità, dalla ricerca di monografismo litico di tanta architettura contemporanea, ribaltando il tema della “superficie” dal verticale all’orizzontale. Abbandonare la frontalità parietale per interessarci del piano di calpestio vuol dire per noi mettere in evidenza un diverso rifluire della liticità. Ai lettori chiediamo di seguirci in questa traslazione di piani, attraverso un salto – speriamo – non esageratamente acrobatico.
Il piano pavimentale è quella superficie che separa, lungo la linea orizzontale, il naturale dall’artificiale, la nuda terra dallo spazio esistenziale dell’uomo. Il pavimento deve assicurare che in esso (o su di esso) “si compia il tempo dell’uomo e non quello della natura” (3) rendendo “sano” un luogo, realizzando una “igiene”; in questo atto di separazione deve opporsi alla natura per evitare che quest’ultima imponga le leggi della sua costante e ciclica rigogliosità rigenerativa fatta di erbe affioranti, di arbusti, di sommovimenti di terre.
Le superfici pavimentali – differentemente da quelle parietali – hanno sempre posto il problema di pervenire alla “chiusura” completa, continua di piani attraverso l’adozione di elementi geometrici.
Vi è chi ha visto nella modularità muraria – con le sue varianti di concatenamento – i motivi iniziali delle redazioni pavimentali riguardandole come muri costruiti in orizzontale. Ma, in realtà, i minori vincoli (soprattutto l’assenza di prestazioni di natura statica) consentono di “slargare” enormemente il mondo formale delle superfici di calpestio.
I pavimenti d’interni – diversamente da quelli d’esterno che hanno sempre un “movimento”, una pendenza, se non veri e propri dislivelli con salti di quota, scale rampe, interruzioni, barriere che ne articolano, ne variano il racconto in chiave spaziale – mettono in scena un mondo forzatamente più limitato e racchiuso. Si presentano soprattutto, sempre, allo stesso livello: complanari, privi di ogni spessore, imbrigliati in quadri bidimensionali abitati da linee e figure geometriche.
Inscritte nel progetto delle superfici pavimentali troviamo – ricorrentemente – le linee “rette”, che s’intersecano perfettamente a definire quadrati e rettangoli riuniti in composizioni a griglie ortogonali. Ma le superfici di pietra accolgono di buon grado anche triangoli, rombi, pentagoni, esagoni, poligoni d’ogni genere. Neppure le linee curve – quei flessuosi segni posti a delimitare, a definire, più esigenti ed “aristocratiche” figure in forma di cerchi, ovali, ellissi e quant’altro – rimarranno escluse da questo mondo di variazioni, di sperimentazioni compositive.
Nel tempo linee e figure geometriche si contenderanno la definizione disegnativa delle superfici – a volte – con un grado di regolarità e modularità replicativa – altre volte – con un più alto “tasso” di virtuosismo e di complessità combinatoria indirizzati a far parlare e far risplendere quel mondo altrimenti pericolosamente “lineare” e “piatto”.
Se – come s’è detto – le superfici pavimentali hanno solo due dimensioni – larghezza e lunghezza – nessun rilievo o scavo potrà manifestarsi nella realtà del piano (salvo introdurre illusionisticamente la terza dimensione); non ci sarà mai nè un alto nè un basso, nè un sopra nè un sotto, ma solo e sempre una superficie complanare, continua.


Cappella dei Principi Medicei a Firenze di Matteo Nigetti (foto di Alfonso Acocella)
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Ma anche un luogo piatto – sappiamo – implica misura, direzione; esige una scrittura, una rappresentazione. La superficie pavimentale usa – a questo fine – figure di puro contorno che si ordinano, si ripetono, si rincorrono, si ritmano; elementi che mettono in gioco le loro forme, le loro proporzioni, spesso il loro colore nelle molteplici relazioni possibili.
Il colore. Eccoci finalmente all’apparizione dei colori sulle superfici litiche; al loro grande fascino ma anche ai problemi che sempre hanno posto.
L’uomo, tassellando il suolo con tessere musive, lastre, tarsie policromatiche, mette in mostra una logica compositiva, una sintassi progettuale molto particolare. Abbiamo cominciato a pensare al colore come ad una seconda natura delle figure geometriche che si contendono, sin dalle origini, il piano di calpestio. Senza colori (senza i colori delle pietre) il tema pavimentale ne uscirebbe molto menomato, impoverito.
Ci siamo accorti che il colore fisicizza – al pari e, forse più, della geometria – ogni corpo connotandone la presenza quasi che, esso stesso, costituisse “finissima” e “impalpabile” materia:
“Il colore – come ci indica Johann Wolfgang Goethe – occupa un posto assai elevato nella serie delle manifestazioni naturali originarie, in quanto riempie di una molteplicità ben definita il cerchio semplice che gli è assegnato. Non ci stupiremo quindi di apprendere che esso esercita un’azione in particolare sul senso della vista, a cui esso in maniera evidente appartiene e, per suo tramite sull’animo delle sue più generali manifestazioni elementari senza riferimento alla costituzione o alla forma del materiale, sulla cui superficie lo vediamo.
Si tratta, diremo, di un’azione specifica quando il colore sia preso nella sua singolarità, mentre, in combinazione con altri, si tratta di un’azione in parte armonica, in parte caratteristica, spesso anche non armonica, sempre tuttavia decisa e significativa che si riallaccia direttamente al momento morale.
Questo è il motivo per il quale il colore, considerato come un elemento dell’arte, può essere utilizzato come un momento che coopera ai più elevati fini estetici.”(4)
La civiltà arcaica cominciò con i colori accesi, con l’ornamentazione cromatica esuberante. Tutti abbiamo davanti agli occhi i toni brillanti ed intensi delle civiltà mediterranee: il colorismo dei regni della Mesopotamia , della Fenicia, dell’Egitto faraonico e poi tolemaico, di Creta e del mondo miceneo, della stessa Grecia classica la cui policromia è stata spesso obliterata, negata dal “filtro inbiancato” della filosofia, delle idee, delle teorie estetiche; di Roma, infine, con il suo policromismo, asceso a gusto cosmopolita dell’età imperiale.
Catturati, abbagliati, dalle lusinghe dei colori delle pietre gli architetti se ne servono, per secoli, a piene mani – così come fanno i pittori che attingono le tinte dalla tavolozza – per decorare, per “dipingere” le serie pavimentali dell’architettura occidentale restituite a colori vivaci e contrastati. Ma qui, nei pavimenti litici, non si tratta – tanto per stare alla metafora pittorica – di tinte “stese” in superficie, “spalmate” in forma pellicolare quanto piuttosto di colori connaturati alla sostanza, all’essenza della materia litica.
La tassellazione geometrica e l’accostamento dei colori pongono, sin dalle origini arcaiche del Mediterraneo antico, con precocità, i temi di un gusto allestitivo polimaterico e sensoriale, di uno Stile – poi – stratificatosi nei secoli a rappresentare nel mondo la cultura occidentale d’interni.
Il Novecento arresta ogni evoluzione. Il filtro, ieri, del Moderno, oggi, del Minimalismo impedisce ancora di affrancarci dall’astinenza, dall’elisione colorica che il secolo scorso ci ha consegnato.
Siamo ancora lontani dalla riabilitazione, dal piacere dei colori.”

Alfonso Acocella

Note
(*) ll presente post riedita il saggio “Superfici di pietra”, pp. 8-15, pubblicato in Nuova estetica delle superfici, Faenza, Gruppo Editoriale Faenza Editrice, 2005, pp. 160.

(1) “Diamo per scontato che la scelta dell’oggetto di uno studio non è innocente, che presuppone già un’interpretazione preventiva, e che è ispirata dal nostro interesse attuale. Riconosciamo che l’oggetto non è un puro dato, bensì un frammento di universo che si delimita in base alle nostre intenzioni. Ammettiamo anche che il linguaggio con il quale segnaliamo un dato è già lo stesso linguaggio nel quale lo interpreteremo ulteriormente. Ciò non toglie, tuttavia, che, a partire da un desiderio di sapere e di incontro, la nostra attenzione si orienti in due direzioni distinte: una riguarda la realtà da cogliere, l’essere o oggetto da conoscere, i limiti del campo di indagine, la definizione più o meno esplilcita di ciò che ci interessa esplorare: l’altra riguarda la natura della nostra replica: i nostri apporti, i nostri strumenti, i nostri fini – il linguaggio che utilizzeremo, i mezzi di cui ci serviremo, i procedimenti a cui faremo ricorso. Certo, siamo noi l’unica fonte di questa doppia scelta: è per questo che scegliamo così frequentemente i mezzi di esplorazione in funzione dell’oggetto da esplorare e, reciprocamente, gli oggetti in funzione dei metodi. Ma non c’è nulla di più necessario dell’assicurare il maggior grado possibile d’indipendenza reciproca tra oggetti e mezzi. Se è auspicabile che lo stile della ricerca sia compatibile con il suo oggetto, non è meno augurabile che lo scarto e la differenza fra noi stessi e ciò che aspiriamo a conoscere meglio, tra il nostro “discorso” e il nostro oggetto, siano marcati con la massima cura.” Jean Starobinski, “Il testo e l’interprete”(1974) in Le ragioni del testo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 175.

(2) Luigi Moretti, “Trasfigurazioni di strutture murarie”, Spazio n. 4, 1951 (ripubblicato in Federico Bucci e Marco Mulazzani, Luigi Moretti, Milano, Electa, 2000, pp. 226.

(3) Roberto Masiero, “Orditure, quadrettature e tarsie” p. 18, in Daniela Cavallo (a cura di), I pavimenti settecenteschi disegnati dall’architetto veronese Luigi Trezza (1752-1823), Faenza, Faenza Editrice, 1998, pp. 99.

(4) Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, Milano, Il Saggiatore, 1999 (ed. or. 1808), pp. 260, a cura di Renato Troncon.

Leggi la recensione di Nuova estetica delle superfici

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