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23 Febbraio 2010

English

Swimming-pool in the Seriana Valley(1995 – 1996)
ARCHEA*

Versione italiana

The construction of an outdoor swimming-pool in an existing villa represented the chance to remodel the surrounding rocky terrain. “The natural state of the slope suggested need for an artificial buttress as a retaining wall, so as to be able to recoup a little flat ground on which to build a split-level pool. The image of the buttress is evidenced by the presence of a lowered walkway that forms a stone perimeter around the terrace”.1
The swimming-pool complex is composed of two pools – a larger, rectangular, unheated pool, and a smaller heated pool shaped around the contours of the buttress itself. This stone platform, with its sharp-cornered scarped walls, is somewhat reminiscent of the Forte di Belvedere in the city of Florence (which has been the base of the Studio ARCHEA since 1988).
The excavation of the site, intended to create a coplanar terrace, revealed the presence of a seam of rock which was immediately utilised to provide stone for the construction of the complex itself. This brown stone with clear yellowish streaks was employed in the form of large, roughly-hewn ashlars to create a strong fortress-like wall – almost a cyclopean work of substruction – displaying rudimentary, archaic-style facing, dressed here and there only in order to facilitate laying. The mortar joints play a largely insignificant role in a wall of such massive blocks of stone, laid closely to one another as a result of their sheer weight.

[photogallery]piscina_vseriana_album[/photogallery]

The architecture amplifies the force of the surrounding mountains and blends in with the stony nature of the site itself. The bulwark is attached to the mountain at the jagged face of the fault, which is where the stone is quarried, and as such is left, complete with vegetation, to form the natural backdrop to the swimming-pool. This blend of the natural and the artificial also features a series of winding paths, of steps carved out of the rock itself, and of ancillary rooms dug out of the slope.
The roughness of the stone surrounding the pool area is replaced by smooth travertine at the poolside itself: highlighted by the light hues of the sedimentary stone surrounds, the presence of water in the pool resembles that of a spring rising up from the bowels of the mountain, a protected source of an indestructible architecture dominating the surrounding landscape.

Davide Turrini

Notes
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

1 Rebecca Innocenti and Francesca Privitera (eds.), Studio Archea, Florence, Alinea, 1997, p.55.

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19 Febbraio 2010

Letture

The Function of Ornament

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MOUSSAVI Farshid, KUBO Michael,
The Function of Ornament
Edizioni Actar (February 15, 2006), 192 pp., bianco e nero
ISBN:
Ed. Inglese [978-84-96540-50-7]
Ed. Spagnola [978-84-96954-31-1]
Ed. Giapponese [978-84-96954-33-5]
Ed. Tedesca [978-84-96954-32-8]
Prezzo: 23€

Nel loro libro The Function of Ornament, Farshid Moussavi e Michael Kubo indagano il ruolo e il senso dell’ornamento nell’Architettura dei nostri giorni, individuando, attraverso celebri esempi di architettura, il paradosso di soluzioni ornamentali apparentemente senza scopo e dimostrandone invece la profonda integrazione sul piano funzionale.
Dopo una breve introduzione che ripercorre la popolarità e il diverso approccio all’uso dell’ornamento dai Romani ai modernisti, Moussavi e Kubo vanno direttamente agli esempi: la trattazione teorica è ridotta al minimo in favore di analisi grafiche schemi costruttivi e compositivi di edifici che riescono a ottenere ornamento funzionale. Nella sua breve introduzione Moussavi traccia una sintesi del rapporto dell’Architettura contemporanea con l’aspetto decorativo del suo linguaggio, individuando, nell’ornamento, lo strumento necessario affinchè il progetto acquisisca gli strumenti semantici della rappresentatività. Dalla teoria di Semper, secondo cui i livelli funzionale e strutturale di un edificio erano subordinati agli obiettivi ornamentali artistici e semantici, a Loos, secondo cui l’ornamento, in quanto strumento di pretenziosa volontà di individualismo, andava invece soppresso, la teoria che sottende il testo è che l’ornamento sia ancora oggi necessario poiché costituisce la principale modalità con cui percezioni e sensazioni vengono generate: secondo gli autori, è l’uso stesso dell’ornamento a garantire che l’architettura contemporanea si connetta alla cultura del nostro tempo.
Attraverso un’interessante selezione di esempi, ordinati secondo le macrocategorie di Forma, Struttura, Schermo, Superficie, gli autori descrivono e analizzano le fasi generative dell’Architettura dal punto di vista dell’intenzione espressiva.

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Secondo le note sul retro del libro, “i disegni in questo libro sono interamente l’opera e l’interpretazione degli studenti presso la Harvard University Graduate School of Design, sulla base delle informazioni pubblicamente disponibili sulle opere rappresentate: gli studenti hanno prodotto disegni splendidi e chiari, che si inseriscono a pieno diritto nel filone della ricerca progettuale classica, attraverso l’uso del disegno.
La funzione dell’ornamento va oltre la semplice ricerca di punti comuni tra i progetti selezionati, e Moussavi e Kubo compiono uno sforzo ammirevole per individuare alcune categorie. Brevi note e frammenti di dettaglio descrivono la concezione e la costruzione di ogni opera, ma, nella maggior parte dei casi, gli autori hanno lasciato che le opere si esprimessero attraverso il segno che le caratterizza. Un tema comune in tutti i progetti è un senso di ordine, spesso realizzato attraverso il principio compositivo dalla ripetizione o dalla simmetria. Di tanto in tanto, si mostrano anche casi in cui il layout compositivo impiega geometrie frattali, assetto aggregativo osservato più volte nel mondo fisico. È il caso del Padiglione Serpentine disegnato da Toyo Ito a Londra, in cui le linee, incrociandosi, formano triangoli di apparentemente casuali, o del Dominus Winery di Herzog & de Meuron nella Napa Valley, dove le diverse dimensioni delle rocce naturali insieme ad una disposizione apparentemente casuale tradiscono un ordine sottostante.
l testo individua nell’ornamento la funzione di suscitare relazioni con il contesto, smantellando la vecchia concezione modernista secondo cui l’ornamento è applicato all’edificio come un’entità discreta e non essenziale. La funzione dell’ornamento è quella di esprimere sinergie tra interno ed esterno, attraverso la costruzione di un ordine interno tra ornamento e materiale costruttivo. Questo sistema di ordine interno produce espressioni che sono contemporanee, ma i cui effetti si dimostrano elastici nel tempo, e tutto ciò, generato da un confronto critico e creativo con la cultura contemporanea, è responsabilità degli architetti.

Valeria Zacchei

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16 Febbraio 2010

Opere di Architettura

Piazza Caracciolo a Sammichele (1999-2001)
di Netti Architetti*

English version

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Prospettiva di Piazza Caracciolo

In un piccolo centro della provincia barese, Lorenzo Netti e Gloria Valente ridisegnano l’immagine complessiva di tre piazze contigue, fortemente caratterizzate da antiche emergenze monumentali. Il tema progettuale è quello della riqualificazione dei tessuti storici minori, della ridefinizione delle qualità spaziali dei vuoti urbani.
Nuove basole di pietra di Trani, accostate le une alle altre in estese superfici lastricate, costituiscono il piano pavimentale dei tre invasi. Il materiale litico diviene così presenza unificante che, attraverso la direzionalità della giacitura di posa, dà vita ad un suolo orientato, capace di contenere e riconnettere in una nuova logica gli oggetti di ciascuna piazza.
Nel baricentro del sistema di spazi pubblici, laddove all’ingresso dell’omonimo castello si apre Piazza Caracciolo, il progetto raggiunge la massima forza riconfigurativa della forma urbana. Grazie alla demolizione parziale di un mercato coperto realizzato in cemento armato negli anni Cinquanta del Novecento, la piazza riacquista la dimensione originaria. La parte dell’edificio conservata è recuperata come aula civica destinata alle attività culturali del museo insediato nel castello. A ridosso del corpo di fabbrica ristrutturato, racchiuso da un nuovo involucro protetto ed inpreziosito rivestimento litico, viene costruito un portico per ripristinare volumetricamente l’originario isolato.

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Prospettiva di Piazza Caracciolo

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La piazza è ripavimentata innalzando la quota di calpestio con lastre a forte spessore di pietra di Trani bocciardata. Gli elementi litici sono posati su di un letto di sabbia e giuntati con una boiacca di malta cementizia. Antiche basole, recuperate da precedenti pavimentazioni, sono incastonate come isolati e preziosi elementi di spoglio nella regolare orditura del nuovo lastricato.
La variazione di orientamento dei campi pavimentali definisce percorsi o aree di sosta diversificate ponendo in evidenzia tre sedili lapidei e due alti e laconici lampioni. Le nuove sedute litiche, sempre realizzate in pietra di Trani e sostenute da rocchi ottagonali, impediscono la sosta delle automobili dando vita ad aree di rispetto davanti alle abitazioni private e agli accessi riservati ai pedoni e ai mezzi di soccorso.
Con questi pochi segni, solidi ed essenziali, i Netti Architetti rifiutano la strada dell’aggettivazione fatta di effimeri oggetti d’arredo urbano e dettano una nuova sintassi spaziale destinata ad una lunga e significativa permanenza.

di Alessandro Vicari

Note
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

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16 Febbraio 2010

English

Piazza Caracciolo at Sammichele (1999-2001)
Netti Architetti

Versione italiana

In a small town near Bari, Lorenzo Netti and Gloria Valente have redesigned the appearance of three adjacent squares strongly characterised by the emergence of ancient monuments. The objective of the design is the re-qualification of minor historical sites and the re-establishment of the spatial quality in empty urban spaces.
New “basole” (large stone paving slabs of volcanic origin) of Trani stone, laid next to each other, form the paved areas in the three squares. Thus the stone becomes a unifying presence which, as a result of the directional nature of the laid stone, orientates the paving, thus capable of containing and interconnecting the objects situated within each of the three squares.
At the focal point of this system of public spaces, in Piazza Caracciolo at the entrance to the Castle of the same name, the design achieves its greatest figurative strength. Thanks to the partial demolition of a covered concrete market built in the 1950s, the square has been restored to its original size. The part of the building left standing has been reconverted as a civic hall for cultural events organised by the castle museum. The renovated building, which has been given a new stone cladding, boasts a portico designed to recoup the missing volume of the original block.


The square has been repaved with strong, thick slabs of Trani stone dressed using a bush-hammer. The stone elements have been laid on a bed of sand and jointed with cement mortar. Ancient basole, recouped from the previous paving, have been inserted here and there to decorate the bare, regular design of the new paving.
The directional variations of the new paving establish the contours of paths or parking areas, with three stone benches and two tall, simple lampposts. The new stone benches, made from the same Trani stone and supported on octagonal drums, prevent vehicles from entering and thus preserve the private nature of the areas in front of the houses and of the entrances reserved for pedestrians and emergency service vehicles.
These few solid, essential items characterise the Netti Architects’ refusal to fill the paved areas with ephemeral objects of street furniture, and dictate a new spatial design destined to be influential for some time to come.

Alessandro Vicari

Note
* The re-edited essay has been taken out from the volume by Alfonso Acocella, Stone architecture. Ancient and modern constructive skills, Milano, Skira-Lucense, 2006, pp. 624.

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12 Febbraio 2010

Citazioni

Giardini di Pietra

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Tempio di Ryoanji, Kyoto, Giappone

«Prima di realizzare il progetto per Pulitzer avevo trascorso quasi sei settimane in Giappone per studiare i templi e i giardini Zen Myoshin-ji a Kyoto.
La principale caratteristica dei giardini di pietra è che tutti i passaggi che li circondano e quelli per attraversarli sono curvilinei. La geometria della conformazione dei giardini ti spinge a camminare secondo un movimento arcuato. L’articolazione di elementi distinti all’interno del campo e il senso del campo nella sua totalità emergono solo attraverso un loro costante attraversamento e la continua osservazione. Altri templi giardini sono costruiti in modo da poter essere osservati da un portico. Ma anche in questo caso, il paesaggio del giardino si rivela nella sua interezza solo se si compie l’intera lunghezza del portico. Gli elementi all’interno della conformazione asimmetrica del giardino sono ridotti al minimo; le sensazioni sono ridotte al minimo in modo che l’attenzione sia rivolta esclusivamente sulla variazione del contesto e si concentri su un elemento alla volta all’interno dello spazio fluido del campo. In tutti questi casi la percezione si basa sul tempo, sul movimento e sulla meditazione. I giardini giapponesi riflettono il concetto di “uji” cioè di “essere-tempo” dove l’esperienza del tempo e dello spazio è inseparabile e fluida. Il vuoto e il pieno sono visti come un unicum e sono compresi nel concetto di “ma”, che può essere definito come lo spazio tra due punti qualsiasi o il silenzio tra due suoni e così via; il concetto di “ma” considera il tempo e lo spazio come sostanza. Il rapporto tra gli elementi è definito dalla distanza tra di loro; vuoto e solido vengono misurati nello stesso modo. Un parallelo di questo concetto si può trovare nella fenomenologia della percezione o nell’esperienza pre-oggettiva come definita dalla filosofia esistenzialista che i minimalisti e gli altri artisti della mia generazione conoscevano bene.

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Tempio di Ryoanji, Kyoto, Giappone

Kyoto ha ridefinito il mio modo di vedere. Lo spazio percettivo del giardino Zen definisce il paesaggio come un campo totale, la sua organizzazione si basa su un concetto di moto perenne da parte dell’osservatore. In questo tipo di giardini il significato della forma deriva solo dal movimento, dal ritmo del corpo. L’attenzione non è mai rivolta verso un oggetto scultoreo isolato ma verso la complessità sincretica dell’insieme. Questa concezione dello spazio è fondamentalmente diversa da quella tradizionale occidentale, la quale si basa su una prospettiva centrale che riorganizza tutti gli oggetti lungo delle linee convergenti emanate dagli occhi di uno spettatore statico. La mia esperienza dei giardini Zen mi ha indicato la necessità di affrontare un paesaggio in termini di totalità di campo. La questione non riguardava più il posizionamento di un oggetto autonomo in un campo ma piuttosto un modo di vedere delle cose fra delle cose. La conoscenza della totalità di un sito diventa essenziale in quanto una lettura critica di quel sito doveva precedere qualsiasi altra intenzione. Il sito deve essere assorbito prima di essere trasformato.»

Richard Serra, “Questioni, contraddizioni, soluzioni”, pp. 55-57 in Eduardo Cicelyn, Mario Codognato (a cura di), Richard Serra (catalogo dell’esposizione, Napoli, MADRE, 22 febbraio – 10 maggio 2004), Napoli, Electa, 2004, pp. 241

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9 Febbraio 2010

Pietre d`Italia

LA PIETRA SERENA NEL TEMPO
Una storia fatta di popoli e luoghi

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Cave a cielo aperto sul Monte Ceceri (Fiesole) in un’immagine d’epoca degli inizi del Novecento (Archivio Storico dl Comune di Fiesole, FI300)

Riveggo le cave di fronte, in attività come allora, le cave della tua pietra serena, Firenze.1
È con le parole di Bruno Cicognani, scrittore verista toscano, che vogliamo intraprendere un nuovo viaggio attraverso l’utilizzo della pietra serena nel corso della storia. Un viaggio virtuale che tenterà di indagare i processi culturali che hanno contribuito al formarsi di un legame inscindibile tra la storia di un popolo e quella delle risorse della sua terra, che tenterà di comprendere la scelta di un determinato litotipo quale segnale di riconoscimento dell’identità di un territorio, che tenterà di rileggere il linguaggio parlato da questo materiale attraverso i secoli.
A partire dal Rinascimento fino ai primi del Novecento, la pietra serena è stata infatti uno dei principali materiali utilizzati dai protagonisti della storia dell’arte e dell’architettura del territorio fiorentino; le tappe di questo viaggio saranno quindi dedicate alla rilettura delle loro opere attraverso una nuova attenzione nei confronti del ruolo assunto da questa pietra nella loro realizzazione. A dimostrazione della rilevanza culturale rappresentata dal permanere dell’utilizzo di questo materiale nel campo produttivo contemporaneo, saranno inoltre individuate le tipologie artistico-architettoniche che hanno accompagnato lo sviluppo di una tradizione artigianale di cui il territorio fiorentino e la figura dello scalpellino si sono resi protagonisti.

Pietra e cave storiche
Detta “macigno” piuttosto che “pietra serena”, probabilmente a causa del suo colore azzurro come il cielo, questa arenaria di origine sedimentaria-torbiditica ha avuto da sempre un indissolubile legame con la città di Firenze e i territori a questa limitrofi. Ormai cavata quasi esclusivamente dai rilievi di Firenzuola, in quel territorio detto della Romagna Toscana, a partire dall’antichità e fino agli anni Sessanta del Novecento veniva estratta dalle montagne addossate alla conca della città. Sia a nord che a sud di Firenze, troviamo infatti rilievi formati da arenaria caratterizzata da grana più o meno fine. L’arenaria “macigno” o “macigno del Chianti”, a grana medio-grossa, si trova a sud e ad ovest dell’agglomerato urbano, nelle località di Gonfolina, Carmignano, Montebuoni e Tavarnuzze. L’“arenaria di Monte Modino”, a grana medio-fine, affiora invece nelle località settentrionali di Fiesole, Settignano e Vincigliata – Monte Ceceri.2

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Pianta schematica della piana di Firenze e Prato (tratta da: Francesco Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Le Monnier, Firenze, 1953, p. 243)

A sud di Firenze, lungo la valle della Greve e verso ovest, nei pressi di Signa, in corrispondenza della confluenza del torrente Ombrone con il fiume Arno e di quella strettoia detta Gonfolina che separa il Valdarno superiore da quello inferiore troviamo, ormai inattive, numerose cave di pietra serena. A cielo aperto ma con frequenti prosecuzioni sotterranee conosciute come “cave fitte” o “latomie”, queste cave risalgono in parte all’epoca medioevale ma, in maniera più frequente, al periodo rinascimentale.3
A partire dal Quattrocento, la crescente richiesta di questo tipo di pietra e la vicinanza di questa zona al fiume Arno, per secoli utilizzato come via di comunicazione tra Firenze e Pisa, porta all’apertura di numerosi siti estrattivi. La qualità del materiale e la facilità del trasporto incentivano la scelta di queste cave per la richiesta di elementi architettonici monolitici da parte dei cantieri di entrambe le città. A Pisa, viste le scadenti caratteristiche dell’arenaria macigno presente presso la vicina località di Filettole, la pietra serena utilizzata proviene quasi esclusivamente da questa zona, tanto da essere generalmente conosciuta come “pietra gonfolina”.4
Tuttavia, la diminuzione della disponibilità di manodopera, insieme alla necessità di materiale più facilmente lavorabile oltre che più economico e adatto alla lavorazione industriale portano, alla metà degli anni Sessanta del Novecento, alla definitiva chiusura di queste cave.

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Cava del Braschi, Monte Ceceri

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A settentrione di Firenze si trova invece la pietra serena più utilizzata nei cantieri storici della città; si tratta di quella pietra cavata dal “paesaggio fiesolano” che Cicognani descrive come crudo lucido violento, decisamente allegro, decisamente tragico: potente di realtà e di sogno.
Di grana più fine e uniforme rispetto a quella della Gonfolina, la pietra di Fiesole e di Monte Ceceri, oggi divenuto “Parco”, è presente nella maggior parte dei monumenti rinascimentali fiorentini.5 Utilizzata fin dall’epoca degli etruschi, questa inizia ad essere cavata in maniera organizzata a partire dal Duecento avviandosi a divenire la base del sistema economico e sociale della zona. Nel corso del Quattrocento, la maggior richiesta di questo materiale porta all’apertura di cave anche nella valle del Mugnone, a Vincigliata e a Settignano.

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Latomia sul Monte Ceceri

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Una pietra di alto pregio si trova nella valle della Mensola, nei pressi di Maiano; Vasari la ricorda come la “pietra del fossato” e la cava è conosciuta come “cava delle colonne”. La varietà, formata da elementi clastici uniformi e di misura ridotta e caratterizzata da elevate caratteristiche meccaniche, è detta “sereno gentile”; utilizzata da Brunelleschi nelle chiese di Santo Spirito e di San Lorenzo e da Michelangelo nella Biblioteca Laurenziana, è particolarmente adatta alla modellazione di sculture ornamentali e colonne portanti.
Tuttavia, nonostante il fatto che il naturalista settecentesco Targioni Tozzetti, nelle sue “Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana” scriva che la pietra serena di Fiesole si continuerà a cavare finché durerà il mondo, la seconda metà del Novecento vede la chiusura anche di queste cave.

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Veduta aerea di alcune cave a nord di Firenzuola

A sopravvivere all’avvento della produzione industriale e all’acquisizione di manodopera da parte dell’industria tessile pratese è il territorio di Firenzuola. Probabilmente a causa della lontananza dalla zona urbanizzata di Firenze, della cospicua disponibilità di materia prima e della modernizzazione delle tecniche di estrazione e lavorazione utilizzate, Firenzuola rappresenta, oggi, l’unico comparto industriale che si occupa di pietra serena sul territorio nazionale.
Estratta in maniera sporadica fin dall’antichità, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento la pietra serena di questa zona diviene protagonista di un’attività allargata e costante. I 5000 mc di pietra cavati nel 1965 divengono, nel corso di pochi decenni, circa 50.000, tanto da acquisire ruolo identitario del territorio ospitante, dal 2002, il “Museo della Pietra Serena”, inserito all’interno del più ampio “Museo Diffuso” del Mugello, Alto Mugello e Val di Sieve.

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Cava di pietra serena nei pressi di Firenzuola

Un materiale antico
Se la pietra serena viene identificata da Cicognani come “la pietra di Firenze”, capace di produrre echi di lontani ricordi di un’infanzia tardo-ottocentesca, per comprendere appieno la trasformazione in assioma della corrispondenza tra questa materia e il suo territorio, appare tuttavia indispensabile risalire ad epoche ben più remote. Popoli come gli etruschi, i romani, i longobardi, avevano infatti già compreso le potenzialità di questa risorsa anticipandone il successo quattrocentesco che, a Firenze, la vede eletta materia capace di dare forma tangibile ai nuovi principi del Rinascimento.

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omba di Montefortini nei pressi di Artimino (foto Marco Becagli)

Nel VI secolo a.C, la civiltà etrusca utilizza la pietra serena già in maniera sistematica. Non è un caso che molte delle antiche cave, sia a nord che ad ovest della città, sorgano a ridosso di alcuni dei più importanti siti dell’Etruria settentrionale, come Artimino e Fiesole. A testimonianza dell’ampio utilizzo della pietra estratta nelle cave limitrofe e della bravura nel lavorarla da parte di questa antica civiltà troviamo i possenti blocchi lapidei formanti le mura fiesolane e le numerose lastre squadrate presenti nei siti tombali: la porta di chiusura della tomba di Montefortini è in arenaria macigno come alcune parti della tomba di Boschetti, della necropoli di Prato Rosello e della sepoltura di Grumulo situata sopra le cave della Gonfolina.
Nel I secolo a.C. i romani la utilizzano nell’edilizia pubblica affiancandola spesso al marmo; ma successivamente e fino all’XI secolo, la troviamo impiegata solo in alcune tombe longobarde e nell’edilizia minore dei borghi. È con la costruzione della Cattedrale di Fiesole, risalente al 1030 circa e ampliata dal 1200, che la pietra serena torna al centro di una vera tradizione artigianale che raggiungerà il suo massimo splendore circa tre secoli dopo.
A partire dall’antichità fino all’epoca contemporanea, le tecniche di estrazione e di lavorazione si affinano gradualmente. Nell’antichità l’attività del cavatore è prevalentemente manuale e solo in tempi più recenti si accompagna all’utilizzo dell’esplosivo. Per lungo tempo, di conseguenza, le cave attive sono quelle dove gli strati qualitativamente migliori appaiono scoperti in natura; il poco materiale di copertura può essere rimosso con pale, picconi e marre.6 L’estrazione, effettuata tramite il massimo sfruttamento delle naturali discontinuità della roccia, avviene tramite la tecnica della “fitta” o quella della “formella”, entrambe basate sull’utilizzo di cunei e tronchi di legno che, bagnati e forzati, provocano il distacco del pezzo. Questo viene lavorato, almeno per la prima sbozzatura, sul piazzale di cava con una serie di strumenti, corti o a manico, che vengono utilizzati in maniera più o meno costante attraverso i secoli.7

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Scalpellini al lavoro presso le cave di Maiano (Archivio Storico dl Comune di Fiesole, FI306)

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Gli assoluti protagonisti di questi luoghi quasi surreali rimangono per secoli gli scalpellini, uomini che alla pietra dedicano l’intera vita. Il mestiere dello scalpellino, dal latino “scalpere”, grattare, incidere, tagliare, diviene nel corso dei secoli, nelle zone di lavorazione della pietra e in particolare nei territori di Fiesole e Settignano, un modello culturale coeso capace di tramandarsi di padre in figlio e di rappresentare l’identità sociale di un popolo.
Gli scalpellini si dividono tra capomastri e garzoni: i primi sono i proprietari o gli affittuari delle cave e delle botteghe sotto le cui dipendenze lavorano i secondi. Lo scalpellino lavora il blocco di pietra secondo una vera e propria arte del tagliare e modellare, assumendo allo stesso tempo il ruolo di tagliatore, incisore, ornatista e decoratore. Tramanda il proprio mestiere alle nuove generazioni insegnando la maestria dell’estrarre la pietra e del lavorarla nella sua espressione più alta, attraverso il ritmico picchiettio di subbie, scalpelli, martelline e bocciarde capaci, nelle sue mani, di trasformare il pezzo in opera d’arte. Il suo è un mestiere antico, che se ormai appartiene ad un passato sempre più lontano, merita di essere ricordato, studiato e raccontato nel tentativo di non perderne la preziosa traccia, senza la quale il patrimonio lapideo tramandatoci dal passato non potrebbe essere compreso nella sua pienezza.8
La figura dello scalpellino e la sua arte ci accompagneranno in questo viaggio attraverso la riscoperta delle opere in pietra serena che hanno partecipato al formarsi della storia dell’architettura, dell’arte, del design e dell’arredo urbano del territorio fiorentino aiutandoci a comprendere, attraverso una chiave di lettura nuova, quale sia stato il processo produttivo e umano, oltre che culturale, che sta alla base di alcuni dei più importanti simboli della storia fiorentina.

di Sara Benzi

Vai a:
Comune di Firenzuola
Le cave storiche di pietra serena a Firenze
Casone

Note
1 B. Cicognani, L’età favolosa, Garzanti, Milano, 1940, p. 494.
2 Per un approfondimento sul tema si veda: Francesco Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Le Monnier, Firenze, 1953; Daniela Lamberini, a cura di, Le pietre delle città d’Italia – Atti della Giornata di Studi in onore di Francesco Rodolico, Le Monnier, Firenze, 1995; Alberto Bartolomei, Franco Montanari, a cura di, Pietra serena – Materia della città, Aida, Firenze, 2002; Luigi Marino, a cura di, Cave storiche e risorse lapidee – Documentazione e restauro, Alinea, Firenze, 2007.
3 Sebbene l’estrazione della pietra vi esistesse già intorno al V secolo a.C., i primi riferimenti documentari che citano l’esistenza delle cave della Gonfolina risalgono al 1124 e al 1269, come testimoniano i naturalisti Giovanni Targioni Tozzetti ed Emanuele Repetti, rispettivamente in: Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, (Stamperia granducale per Gaetano Cambiagi, Firenze, 1768-1777) e Dizionario geografico fisico storico della Toscana, (coi Tipi di Gio. Mazzoni, Firenze, 1846).
4 L’incremento dell’attività estrattiva, sebbene avvenuto a fasi alterne porta, all’inizio del Novecento, alla presenza di circa sessanta cave attive dislocate a nord e a sud del corso del fiume.
5 Il Parco di Monte Ceceri, con la sua superficie di 44 ettari, nel 2001 è stato riconosciuto dalla Regione Toscana come “Area Naturale Protetta”. Questa, oggi attraversata da percorsi turistici comprendenti alcune delle antiche antiche cave ormai inattive, è il risultato di un’opera di rimboschimento e manutenzione cominciata a partire dal 1929 e proseguita, a fasi alterne, durante tutto il Ventesimo secolo.
Per un approfondimento sul tema si veda Elena Maria Petrini, a cura di, Il Magno Cecero – Il Parco della pietra serena a Fiesole, guida alla mostra tenutasi nella Palazzina Mangani dal 23 novembre al 9 dicembre 2001 con il patrocinio del Comune di Fiesole, Firenze, Polistampa, 2001.
6 I livelli migliori vengono detti “banditi” in quanto cavati solo con il permesso governativo (bando) o per opere pubbliche.
7 Per un approfondimento sulle tecniche di estrazione della pietra serena e sugli strumenti e le tecniche utilizzati si veda Matti Kalevi Auvinen, L’arte lapidea a Settignano: arnesi, opere e documenti, catalogo della mostra tenutasi a Settignano tra 20 maggio e il 17 giugno 2001, Settignano, Vannella, 2001.
8 Per un approfondimento sul tema si veda: Carlo Salvianti, Mauro Latini, La pietra color del cielo – Viaggio nelle cave di pietra serena del Montececeri, Minello Sani, Firenze, 1988; Giorgio Carli, La pietra di Firenzuola – Cultura manuale e architettura popolare, Giorgi & Cambi Editore, Firenze, 1989; Francesco Mineccia, “Il monopolio della pietra”, in La pietra e la città – Famiglie artigiane e identità urbana a Fiesole dal XVI al XIX secolo, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 177-234.

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4 Febbraio 2010

English

Grass bench

Versione italiana


Grass, stone, and water: details of the Grass Bench, designed by Philippe Nigro for Pibamarmi. (ph. Giovanni De Sandre)

«Around Mister Palomar’s house, there’s a lawn. This is not a place where usually there would be a lawn; so the lawn is an artificial object, made of natural objects, that is to say grass. The lawn has, in a way, the aim to represent nature, and this representation happens substituting proper nature with a sort of nature that is natural in itself but artificial in relationship with that place. […] The lawn is made of dicondra, ryegrass, and clover. This is the melange that was spread, in equal parts, on the ground at the moment of the seeding. The dicondra, little and wiggling, has soon took the upper hand: its carpet of little, round and soft leaves spreads, comfortable to the touch and the sight. But the width of the lawn is given by the sharp lances of the ryegrass, if they’re not too sparse and if they aren’t let grow too much without cutting them properly. The clover grows irregularly, here two locks, there an ocean of them […].
The lawn, in order to have a deign look, has to be a homogenous green sprawl: unnatural result that the natural lawns reach naturally. Mister Palomar is weeding out nestled on the lawn. A dandelion adheres to the ground with a base of toothed leaves, densely overlapped; if you draw the stalk, this remains in your hand while the roots remain deep-rooted in the ground. […] When you star to eradicate the weed, immediately you have to sprout up another one next to it, and another one, and another. Briefly, that spot of grass carpet, which seemed to need only some adjustments, becomes a lawless jungle”.


Dettaglio della panca Grass Bench, disegnata da Philippe Nigro per Pibamarmi. (ph. Giovanni De Sandre)

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Mister Palomar’s lawn gives us the idea of a multiform and complex nature modified by men, natural and artificial at the same time, protagonist of our every-day life as the theatre of the eternal struggle between rules and extravagancies, opposite realities that dispute the control on vital forces in continuous regeneration. Now more than ever the basic rules of biosphere and human cultural schemes are, sometimes dramatically, in a dialectic relationship, and our need to regain closeness and confidence with nature becomes more and more urgent. This need becomes clear also in the development of a design which tries to catch vital presences of the vegetal reign, and to overlap and set them in every-day objects or furnishing elements, continuing the ancient relationship between mankind and nature, constituted by affiliation, complicity, and control.
The big Grass Bench is an element thought to bring a piece of nature – i.e. a representation of nature, with an apparent order but actually chaotic and restless – in urban spaces, or inside contemporary living spaces. The seat, recently designed by Philippe Nigro for Pibamarmi and exposed in the Monocromo space at the upcoming MADE Expo, offers itself to the fruition as a stone-limited tray containing a grass sod that can be looked at, touched, mowed; or on which one can walk or lay.
The stone is blue-gray, smooth, silk-like at the touch, unanimated; the grass has a homogeneous green colour, is compact and with a constant width… but above all is alive, and we know – with Palomar – that, if let grow, the lawn of the Grass Bench will expand limited only by the stone borders, loosing the initial homogeneity to eventually become a spontaneous development of aggregated vegetal species.

by Davide Turrini

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Philippe Nigro
Pibamarmi

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2 Febbraio 2010

Design litico

Grass bench

English version

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Erba, pietra e acqua: dettaglio della panca Grass Bench, disegnata da Philippe Nigro per Pibamarmi. (ph. Giovanni De Sandre)

«Intorno alla casa del signor Palomar c’è un prato. Non è quello un posto dove naturalmente ci dovrebbe essere un prato; dunque il prato è un oggetto artificiale, composto di oggetti naturali, cioè erbe. Il prato ha come fine di rappresentare la natura, e questa rappresentazione avviene sostituendo alla natura propria del luogo una natura in sé naturale ma artificiale in rapporto a quel luogo. […] Il prato è costituito di dicondra, loglietto e trifoglio. Questa la mescolanza in parti uguali che fu sparsa sul terreno al momento della semina. La dicondra, nana e strisciante ha presto avuto il sopravvento: il suo tappeto di foglioline tonde e morbide dilaga, gradevole al piede e allo sguardo. Ma lo spessore del prato lo danno le lance affilate del loglietto, se non sono troppo rade e se non le si lascia crescere troppo senza dargli una tagliata. Il trifoglio spunta irregolarmente, qua due ciuffi, là niente, laggiù un mare […].
Il prato per fare la sua figura deve essere una distesa verde uniforme: risultato innaturale che naturalmente raggiungono i prati voluti dalla natura. Il signor Palomar sta strappando le erbacce accoccolato sul prato. Un dente-di-leone aderisce al terreno con un basamento di foglie dentate, fittamente sovrapposte; se si tira il gambo, questo ti resta in mano mentre le radici permangono confitte nel terreno. […] Quando si comincia con lo sradicare una gramigna, subito se ne vede spuntare un’altra un po’ più in là, e un’altra, e un’altra ancora. In breve, quel lembo di tappeto erboso che sembrava richiede solo pochi ritocchi, si rivela una giungla senza legge», (Italo Calvino, Palomar, Torino, Einaudi, 1983, pp. 34-36).

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Dettaglio della panca Grass Bench, disegnata da Philippe Nigro per Pibamarmi. (ph. Giovanni De Sandre)

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Il prato del signor Palomar ci consegna l’idea di una natura antropizzata multiforme e complessa, naturale e artificiale al contempo, protagonista della nostra quotidianità come teatro dell’eterna lotta tra regola ed eccezione, tra realtà antitetiche pronte a disputarsi il governo sulle forze vitali in continua rigenerazione. Oggi più che mai le norme primigenie della biosfera e i modelli culturali dell’uomo entrano in un rapporto dialettico, a tratti drammaticamente problematico, e la nostra esigenza di riacquistare un rapporto di vicinanza e confidenza con la natura diventa sempre più urgente ed importante. Tale bisogno si manifesta anche nel proliferare di un design che tenta di catturare presenze viventi del regno vegetale da sovraimporre o da incastonare in oggetti d’uso o di arredamento, perpetuando l’antica interazione tra uomo e natura fatta di appartenenza, complicità, dominio.
La grande panca litica Grass Bench è un oggetto pensato per portare un pezzo di natura – o meglio della rappresentazione di tale natura, ordinata in apparenza, in realtà inquieta e caotica – negli spazi urbani, o all’interno dei luoghi dell’abitare contemporaneo. La seduta, di recente firmata da Philippe Nigro per Pibamarmi e in mostra allo spazio Monocromo durante il prossimo MADE Expo, si offre infatti allo sguardo e alla fruizione come un vassoio orlato di superfici in pietra, a contenere una zolla erbosa da osservare, toccare, curare; o sulla quale camminare o sdraiarsi.
La pietra è grigio-azzurra, liscia, setosa al tatto, inanimata; il prato è di un verde uniforme, è compatto e di spessore costante… ma è vivo e anche noi sappiamo, come Palomar, che ben presto – se lasciato libero di crescere – il prato di Grass Bench vegeterà, vincolato solo dal bordo lapideo, perdendo l’iniziale omogeneità per trasformarsi finalmente in una proliferazione spontanea di specie vegetali aggregate.

di Davide Turrini

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Pibamarmi

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1 Febbraio 2010

Letture

Massimo Iosa Ghini – da Designer ad Architetto

Massimo Iosa Ghini – da Designer ad Architetto
Aldo Colonetti, François Burkhardt, Gillo Dorfles,
Editrice Compositori, Bologna 2005
197 pagine, ill.,
prezzo: 40,00 €
testo in italiano con traduzione in inglese

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Il pensiero di Massimo Iosa Ghini, intellettuale “a tutto tondo” di formazione designer e progettista architettonico – in breve, “umanista” nel senso più completo del termine – viene percorso ed esplorato in questo libro ben strutturato ed esaustivo, in cui al contributo iniziale di tre figure di spicco del panorama culturale internazionale (Colonetti, Burkhardt e Dorfles) segue un apparato ben documentato ed efficacemente illustrato delle opere del maestro bolognese.

Dal “primo amore” per il fumetto e dalle suggestioni aerodinamiche e futuristiche del “bolidismo” degli inizi, Iosa Ghini ha intrapreso nel tempo un percorso che lo ha condotto a maturare una visione di progetto “trasversale”, concepito per una società in movimento e in continua evoluzione, in cui design e progetto architettonico si arricchiscono a vicenda, pure nelle loro differenze.

Gli autori delineano un quadro puntuale dell’approccio culturale di Iosa Ghini riconoscendone il carattere assolutamente unico e personale, dall’epoca della formazione universitaria nell’ animata Firenze degli anni ’70 ai tempi in cui si è confermato come uno dei più attivi protagonisti del rinnovamento del design italiano.
Colonetti riscontra nell’opera di Iosa Ghini, oltre a un visibile talento figurativo, una vivace tensione a piegare l’”utile” al “dilettevole” interpretando le esigenze del mercato e della committenza, senza però rinunciare a un forte vigore espressivo, alle proprie radici culturali, a un’idea di spazio flessibile concepito come un “racconto”. Burkhardt rileva come, affrancandosi dai dictat del design classico, dagli anni ’80 Iosa Ghini abbia contribuito a “liberare” il linguaggio del design attraverso l’autonomia formale e l’ironia, rivolgendosi non solo alle esigenze funzionali ma anche sociali, antropologiche e psicologiche dell’utenza. Dorfles infine legge nella sinuosità del disegno, nella vivacità cromatica e nella fantasiosità del lavoro di Iosa Ghini un’ occasione non solo per connotare l’opera con grande energia espressiva ma anche per affrontare con elevata responsabilità operativa temi di natura tecnica e funzionale, al di là di qualsiasi esasperazione iperrazionalista.

Segue l’illustrazione descrittiva e iconografica, accuratamente dettagliata, di alcune delle opere più significative di Iosa Ghini, in cui emergono gli aspetti di forte caratterizzazione linguistica, dal dinamismo delle forme arricchite da potenti contributi cromatici alle visioni di spazialità flessibili e aperte, nell’aspirazione a perseguire un progetto veramente “libero” e incondizionato da presunte etichette di stile, fervidamente immaginifico ma sempre e comunque a misura dell’Uomo, delle sue esigenze e delle sue aspirazioni.

Chiara Testoni

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29 Gennaio 2010

Letture

Sostenibile ma bello, Progetti di Iosa Ghini Associati

Sostenibile ma bello, Progetti di Iosa Ghini Associati
A cura di Maurizio Corrado
con testi di Stefano Casciani, Rita Finzi, Carlo Forcolini, Roberto Marcatti, Andrea Margaritelli, Fabio Novembre, Luigi Prestinenza Pugliesi, Mosé Ricci, Domenico Sturabotti, Matteo Thun
Editrice Compositori, Bologna 2009
101 pagine, ill.,
prezzo: 20,00 €
testo in italiano con traduzione in inglese

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Il libro “Sostenibile ma bello” a cura di Maurizio Corrado è un bel contributo a una riflessione critica sul tema della vexata quaestio che ha arroventato le pagine della storia dell’architettura e del design fino ad oggi e che trova origine nell’”epica” conflittualità tra Estetica e Funzionalismo.

Con un approccio pacato ma convincente, il libro veicola l’attenzione del lettore sul tema della necessità, ormai irrinunciabile nella progettazione contemporanea “dal cucchiaio alla città”, di pervenire a un confronto equilibrato e propositivo tra ansia creativa e sostenibilità ambientale.
Se da un lato la solida eredità del design italiano suggerisce una forte pulsione verso la ricerca della “bellezza” come obiettivo progettuale prioritario, dall’altro il concetto di “sostenibilità” pare invece evocare una deterministica prevaricazione della funzione sulla forma e una certa avversione verso qualunque espressività artistica: al di là di qualsiasi pregiudizio culturale o sterili etichette ideologiche, il libro propone invece la ferma convinzione che né la forma fine a sé stessa né la tecnologia auto referenziata possano ritenersi sufficienti a perseguire un processo compositivo adeguato alle istanze e alla necessità del mondo odierno.

A supportare questa tesi, nella parte I del libro sono proposti, oltre a quello del curatore, i contributi di alcune delle voci più brillanti del panorama culturale italiano e internazionale. Il tema della riscoperta della natura (Casciani) e dell’impiego di materiali naturali di alta ispirazione evocativa (il vetro, Novembre; il legno, Margaritelli), la doverosa presa di coscienza della limitatezza delle risorse naturali (Marcatti) e il valore democratico della bellezza (Sturabotti), l’ energia creativa legata alle opere dell’umano intelletto (Prestinenza Pugliesi) e la vocazione “ecologica” dell’architettura (Thun), sono solo alcune delle suggestioni proposte che dichiarano l’avvento di una nuova sensibilità operativa in materia di architettura e design.

Nella parte II del libro viene esplorata, attraverso testi concisi ma esaustivi e immagini dall’efficace taglio fotografico, l’opera dell’architetto e designer Massimo Iosa Ghini, in cui si coglie limpidamente come forma, funzione e sensibilità ecologica possano mirabilmente coesistere valorizzandosi reciprocamente in un prodotto depositario di un elevato valore formale e al contempo pienamente sostenibile da un punto di vista ambientale.

In particolare, attraverso l’illustrazione di opere prescelte, il libro pone in luce alcuni dei più significativi principi ispiratori dell’approccio culturale e ideativo del maestro bolognese.
La considerevole capacità interpretativa delle potenzialità espressive dei materiali (Esedra Nice Hotel, Nizza), la forte sensibilità ecologica (New York Residence, Budapest; case unifamiliari, Nicosia; circolo del Ministero degli Affari Esteri, Roma), l’evidente tensione poetica riscontrabile nella mutua integrazione tra architettura ed “elemento vegetale” (Busstop, Hannover; parcheggio giardino, Roma; installazione per Interni Design Energy, Milano; People mover, Bologna), sono solo alcuni degli aspetti del lavoro di Iosa Ghini che rivelano come, attraverso una visione lucida e consapevole del progetto nella sua complessità, gestualità artistica e competenza tecnica, insieme, possano realmente concretizzare nell’architettura e nel design un perfetto equilibrio tra opera d’ingegno e responsabilità ecologica, tra “artificio” e “natura”.

Chiara Testoni

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