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21 Ottobre 2005

Interviste

Intervista all’architetto Antòn Garcìa Abrìl


Spain General Society of Authors and Editors, Santiago de Campostela

Lo scorso primo ottobre, a Verona in occasione del 40° Marmomacc, la redazione di Architetturadipietra.it ha intervistato alcuni dei vincitori della nona edizione del "Premio Internazionale Architettura di Pietra".
La conversazione con Antòn Garcìa Abrìl, architetto madrileno premiato per il progetto del Centro di Alti Studi Musicali della Galizia, inaugura la pubblicazione del ciclo di interviste sul Blog e sarà presto seguita dalla conversazione con Alberto Campo Baeza.

Alberto Ferraresi: Vorrei tornare a quanto diceva durante la conferenza riguardo l’impressione degli abitanti del luogo che fosse un edificio esistente da molto tempo prima del suo progetto. Questa strategia di perseguire un intervento in qualche modo "archeologico" quanto ha influito sulle scelte materiche e della pietra in particolare?
Antòn Garcìa Abrìl: Beh, la pietra considerata come materiale ci parla del tempo. Come ho detto nella conferenza dopo aver terminato l’edificio c’era gente che mi diceva di vedere come un progetto che esisteva già da 10 o 15 anni. Si tratta dunque di un’architettura che si lega al tempo in un modo speciale, con il suo linguaggio e con la sua materialità. E rapportarsi al tempo significa ovviamente rapportarsi al tempo della città. Ogni città ha il suo tempo ben distinto, e la città di Santiago ha un tempo lento, molto lento. Chi conosce la città ha evidenza di questo tempo lento, del fatto che il suo passato è fatto di tanti momenti della storia in cui sono successe delle cose.

A.F.: Parlando di Santiago è facile richiamare alla memoria progetti molto noti ad esempio di Alvaro Siza Vieira. L’uso della pietra nei progetti di Siza a Santiago è un uso che potremmo definire non tradizionale, nel senso che si tratta spesso di una struttura di metallo e dell’applicazione di una lastra litica molto sottile. Lei invece in un certo senso ha cercato il recupero di un’applicazione quasi tradizionale, una parete in pietra pressochè strutturale: un’applicazione che richiama più l’antico che non il contemporaneo. L’innovazione è forse più nel proporre un tipo di finitura che oggi non si cerca, cioè quella grezza e scabra del suo progetto. Ha trovato delle difficoltà nella realizzazione di questa finitura? Mi riferisco in particolare alle fasi del confronto con gli artigiani.
A.A.: In ciò che lei mi chiede ci sono in realtà più domande.
Per iniziare, oggi abbiamo, e questa esposizione lo mostra, una tecnologia che permette di fare con la pietra qualunque cosa. La stessa cosa con la pietra che ad esempio con la plastica. Abbiamo visto pietre sottilissime, pietre di vari colori, pietre che quasi si possono mangiare.., sono tutte trasformazioni tecniche di un materiale. Io rispetto questo tipo di atteggiamento. Però il mio interesse è riconoscere, che non significa recuperare, ma riconoscere, solamente quella qualità della pietra che le è intrinseca. Stiamo cioè parlando della massa, stiamo parlando del peso, stiamo parlando di questi aspetti che sono intrinseci al materiale. E sono gli insegnamenti, gli aspetti, a cui io ho cercato di prestare attenzione nell’osservare tutta la storia. In questo senso va inteso il mio interesse particolare. E lo perseguo con relativa difficoltà: quando c’è un’industria strutturata, con una propria pianificazione e qualcuno vuole fare qualcosa di differente è sempre difficile. Nel caso particolare del mio edificio quello che io ho fatto è stato di andare alla cava e di supplicare il responsabile di interrompere il suo processo di manipolazione della pietra al suo primo stadio. Questo sembra semplice perchè se la pietra frutto dei processi industrializzati ha normalmente cinque o sei fasi di lavorazione, io domandavo solo di fermarsi alla prima. La mia fortuna è stata che la persona con cui ho parlato si è dimostrata molto intelligente: dopo le mie suppliche lui si è lasciato convincere a realizzare un piccolo campione, ed ha deciso di prendersi il rischio di realizzare un edificio. L’unico problema è che il rischio che gli architetti volevano assumersi nella loro indagine non era ugualmente condiviso con l’industria. E’ necessario guadagnarsi la fiducia dell’industria per poter lavorare e poter far mettere mano alle cose secondo la propria idea. Non è impossibile, ma non è certo facile.


Spain General Society of Authors and Editors, Santiago de Campostela. Modello di progetto

A.F.: Dal momento che si tratta di una finitura, come diceva, non rigorosa – lei stesso affermava di aver voluto ricercare una finitura scabra, "sporca", non finita – dal punto di vista del progetto questo che cosa ha comportato, nel senso: fino a che punto è arrivato il disegno e quando invece ha pensato che fosse arrivato il momento di fermare la rappresentazione per passare all’intesa diretta con gli artigiani ed al controllo diretto della costruzione?
A.A.: Noi architetti, o forse i progettisti in generale, cerchiamo di trovare la bellezza in modi difficili. La bellezza non è sempre evidente. Quando è evidente si perde. Allora questa sorpresa di trovare la bellezza e la nettezza nella pietra è ciò che mi soddisfa di più. Ora, tornando a quanto dicevo prima, questo che io chiedevo al responsabile della cava era ciò contro cui lui si era formato, erano tutte le cose che lui si era applicato ad evitare. E sono quelle che io cercavo, che volevo inserire nel mio progetto: l’irregolarità, l’impurezza, l’imprecisione, l’irregolare, e questo è il ricorso espressivo.

A.F.: Che in parte, ricordava questa mattina, è dovuto all’interpretazione del luogo: il tipo di luce in particolare presente in quel luogo.
A.A.: Questo non è solamente un vezzo, una decisione presa per un qualche capriccio. E’ una riflessione che sorge dal comprendere che questo luogo ha una luce fisica, se non chimica, che manda scariche energetiche, che riflette molto la meteorologia: l’umidità di Santiago è costante, la corrente atlantica incide direttamente in quest’area, ed il tempo e la climatologia sono in mutazione continua. Ogni giorno ha luce, pioggia, nuvole, tutta la gamma di variabili metereologiche. I piani neoplastici lecorbusieriani funzionano bene con la luce e l’ombra, con il colore mediterraneo. Non sono invece adatti con questo clima, con quest’area, che ha bisogno di una superficie e di un volume che esposto al sole raccolga quest’energia propria del luogo, del suo clima e della sua luce.

A.F.: In qualche modo adesso abbiamo parlato delle preesistenze naturali. Al di là di questo specifico progetto le volevo invece chiedere se ci sono in lei e nel suo modo di operare delle preesistenze a livello di insegnamenti di altri progettisti per quanto riguarda l’uso dei materiali e della pietra in particolare, se c’è qualcuno che ha influito in modo speciale o che guarda particolarmente per poi reinterpretare il suo lavoro.
A.A.: Beh, mia maestra è tutta la storia. I contributi che ho più vivi sono quelli di Raphael Moneo, in cui ho riconosciuto una sensibilità speciale nel percepire in un certo senso il "rumore" del luogo, della città e della gente. Poi Alberto Campo Baeza in generale per la poesia, la sensibilità personale, la poetica. Infine Rem Koolhaas per il coraggio, le motivazioni della sua ricerca.


Spain General Society of Authors and Editors, Santiago de Campostela. Modello di progetto

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