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5 Novembre 2005

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Pensare i materiali. Pensare la pietra


Stone Museum (foto Archivio Kengo Kuma)

Ritorno ai materiali
“Nel corso degli anni novanta ho visitato moltissimi luoghi alla ricerca della concretezza della sostanza, desideroso di sperimentarne le possibilità. Questo girovagare mi ha consentito di conoscere molte sostanze interessanti e di lavorare in modo serio "insieme" alla sostanza. Ripensando adesso a queste occasioni, mi rendo conto che sono tutte capitate per caso. Non ero tanto io a cercarla attivamente, guidato da un concetto, quanto piuttosto la sostanza a venirmi incontro. Io sono sempre stato passivo, era sempre la sostanza a piombare su di me. All’inizio la mia reazione era invariabilmente: "cosa? Devo lavorare con questo materiale ?", ma dopo qualche tempo la sensazione di disagio si trasformava in affetto. Sviluppavo un forte legame con la sostanza. Probabilmente è per questo che sono riuscito ad agire su di essa con una notevole libertà, come un dilettante, senza sentirmi legato a metodi già esistenti.(…)
Nello Stone Museum ho incontrato la sostanza denominata pietra. La pietra era un altro materiale che non prediligevo o che, per essere onesto, non amavo granchè. Il mio scarso entusiasmo era dovuto al fatto che la pietra, per il modo in cui veniva utilizzata in architettura, rientrava precisamente nella categoria del materiale da finitura così com’era concepito dal "metodo calcestruzzo". Per questo motivo la pietra non mi sembrava offrire possibilità ulteriori. Una lastra di pietra spessa anche solo 20 mm evoca perfettamente sensazioni come il calore e la tranquillità della natura, quindi, per superare il disagio che a qualcuno crea il calcestruzzo a vista, basta nasconderlo con un rivestimento superficiale in pietra; secondo me, invece questo produce un effetto esattamente contrario: il rivestimento in pietra, cioè, amplifica ulteriormente il peso e lo spessore del calcestruzzo. Per questo trovavo difficile lavorare con la pietra e non ero entusiasta di utilizzarla.
Sembra incredibile ma l’edificio che il mio committente chiedeva era proprio un museo della pietra: in particolare, si trattava di realizzare un museo dedicato alle sculture lapidee e alle relative tecniche di lavorazione intorno agli antichi depositi in pietra esistenti. Avrei potuto scegliere di progettare un ampliamento, una scatola di vetro, in modo da tenermi a distanza da quella che era per me una sostanza indesiderabile. All’inizio ero propenso a seguire questa idea, ma dopo una settimana di profonde riflessioni ho deciso di cogliere l’opportunità che mi si presentava per imparare a trattare l’indesiderabile materiale della pietra. Mi sono chiesto se non avessi potuto trovare il sistema per salvare in qualche modo la "sostanza pietra", così strettamente legata al "metodo calcestruzzo", decidendo di affrontarla seriamente. Per il materiale in sè, questo avrebbe potuto essere un favore non richiesto o un’inutile premura. Affrontare la pietra direttamente per la prima volta significava ammettere la possibilità di fallire, ma sentivo che il fallimento sarebbe stato più accettabile che non evitare intenzionalmente il problema per come si presentava attraverso questo progetto.
La mia unica speranza era il mio committente Shirai Sekizai, con la sua fabbrica e i suoi operai. Gli scalpellini avevano tutti la pelle cotta dal sole e ostentavano dita massicce a testimonianza della loro maestria. Gli antichi depositi risalenti all’era di Taisho erano stati costruiti in pietra di Ashino, un tipo di andesite identica a quella della cava del posto. Si tratta di una comune pietra che, non utilizzata correttamente, si può confondere con la malta. Dopo aver osservato a lungo questo materiale ho cominciato ad apprezzarne la strana morbidezza, preferendola alla durezza del granito o dell’ardesia.(…)
Il mio obiettivo era uno solo: sottili lastre di pietra applicate sul calcestruzzo. Ma come potevo evitare nello stesso tempo quell’immagine falsa e pesante che portava a pensare che fosse tutto parte di una relazione collusiva ? Con questo preciso obiettivo in mente, ho fatto alcune ricerche e ho presentato agli scalpellini del signor Shirai una richiesta irragionevole. La mia prima idea è stata quella d realizzare un sistema di lamelle in pietra. Ho pensato che l’uso delle lamelle rappresentasse il sistema più distante dalla relazione collusiva tipica del calcestruzzo, e che nello stesso tempo offrisse l’importantissimo beneficio di far filtrare liberamente l’aria. Le lamelle avrebbero portato all’interno dell’edificio particelle capaci di contrapporsi alla relazione collusiva del calcestruzzo. Pronto a farmi ridere in faccia, ho chiesto agli operai: "riuscite a tagliare la pietra in lastre sottili come lamelle?"; inaspettatamente mi sono sentito rispondere: "Sì, certo". Tuttavia, nè io, nè gli operai della cava del signor Shirai avevamo alcuna esperienza nella produzione di lamelle di pietra. Abbiamo provato a realizzare di molte sezioni diverse finchè abbiamo stabilito che le dimensioni più adatte erano 40×150 mm per una lunghezza di 1,5 m. I pilastri di pietra erano disposti ad intervalli di 1,5 m, quindi le lamelle sono state inserite all’interno degli incavi a zigzag appositamente predisposti nei pilastri stessi.(…)
Questa architettura è stata di nuovo il prodotto di un incontro inaspettato, accidentale. L’avversione per la pietra mi ha portato a pensare che dovevo trasformare le strutture in pietra in elementi e in qualche modo rompere la relazione collusiva tra pietra e calcestruzzo. Se avessi lavorato esclusivamente con i materiali e le sostanze che amavo, non avrei mai avuto un’esperienza simile, nè sarei arrivato a realizzare una struttura come questa”.

di Kengo Kuma
(Vai a Kengo Kuma & Associates)

Kengo Kuma, "Ritorno ai materiali", p. 22 e seguenti, in Kengo Kuma Opere e progetti, a cura di Luigi Alini, Milano, Electa, 2005, pp. 256.

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