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4 Dicembre 2005

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Architetture e manufatti del cotto


Il convegno nel salone del Palazzo dei diamanti (foto: Luca Rocchi)
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Approfondimento di storia e cultura materiale
Nelle giornate del 14 e 15 novembre si è svolto a Ferrara il primo convegno nazionale delle “Architetture e manufatti del cotto, approfondimenti di storia e cultura materiale”, in una cornice, quella ferrarese, che costituisce senza dubbio uno dei tessuti architettonici più rappresentativi della cultura dei laterizi e delle terrecotte decorative dell’Italia settentrionale.
Il convegno, come sottolineato dalle autorità presenti – il preside della facoltà di Architettura arch. Graziano Trippa, la direttrice regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia l’arch. Carla di Francesco, la soprintendente per i Beni Architettonici e il Paesaggio di Ravenna arch. Anna Maria Iannucci e i rappresentanti dell’Amministrazione Comunale – si inquadra in un percorso di studio e confronto sul tema della città storica intrapreso da lungo tempo ed in un rapporto di stretta simbiosi tra Amministrazione Comunale, Soprintendenza ai Beni Architettonici e Facoltà di Architettura. Un percorso di studio, tutela, valorizzazione e valutazione delle applicazioni normative, che ha prodotto numerosi studi finalizzati alla stesura di procedimenti per attuare la conservazione di un patrimonio così importante, soprattutto in seguito al riconoscimento di Ferrara da parte dell’U.N.E.S.C.O.
Il tema del cotto in tutte le sue forme (dal mattone comune, al cotto plasmato o scolpito fino alla statuaria in terracotta e le relative tecniche di finitura) costituisce uno dei principali filoni di studi intrapresi in questi anni la cui naturale conseguenza è stata l’organizzazione di questo ampio convegno che ha coinvolto tecnici e studiosi dell’Italia settentrionale e non solo, intorno ad un tema specifico su cui confrontarsi, augurandosi che, come esposto nelle intenzioni degli organizzatori, diventi questo un appuntamento annuale per incontrarsi ed estendere la presentazione dei casi studio anche alle realtà più lontane.
Le due intense giornate sono state suddivise in quattro grandi sessioni di relazioni, nel salone del palazzo dei Diamanti, più una sessione di poster, ospitata nella magnifica sede di Casa Romei.
Le quattro sessioni hanno costituito i contenitori per suddividere i trenta interventi in aree affini: le “Grandi Architetture del cotto tra Emilia e Lombardia”, gli “Aspetti metodologici nello studio della terracotta decorativa”, “L’uso del laterizio: costruzioni e finiture” e il “Cotto plasmato: la statuaria in terracotta”. La sessione poster è stata pensata invece come uno strumento di chiarificazione ed ampliamento grafico di alcune relazioni che hanno trovato in questa sede la possibilità di esporre tavole e fotografie più esaustive ed anche di presentazione di studi o restauri che non hanno trovato modo di essere contenuti nelle precedenti sessioni.
Al di là di una descrizione dei singoli interventi, per i quali si rimanda alla prossima pubblicazione degli atti che saranno certamente più completi ed esaustivi, si vuole in questa sede esporre le principali tematiche emerse da questo primo convegno che sono state anche argomento di discussione dell’interessante sessione poster e che dovrebbero costituire lo stimolo di ricerca e studio in vista del prossimo appuntamento.

Cotto “a vista”; l’importanza e il ruolo delle finiture
La cultura ottocentesca e le sue ideologie, ancora oggi troppo spesso presenti, hanno a lungo creato un’immagine del cotto che vuole la sua messa in vista, il mostrare la nuda realtà materica senza tracce di finiture o lavorazioni che mascherassero la verità strutturale del mattone.
Oggi siamo tutti, o almeno chi si occupa con interesse e professionalità di restauro, coscienti della dimensione complessa che la “muratura in laterizio” significasse nel passato, costituendo un sistema di tecniche e materiali differenti, ma affini, che si integrano e completano per offrire un’immagine molto più ricca e affascinante delle tante riduzioni a vista che costellano i nostri “centri medievali”. Non è un caso che almeno un terzo degli interventi del convegno abbia infatti trattato più degli intonachini, dei giunti e dei trattamenti superficiali che delle cortine laterizie in sè.
Sembra ormai scontato ai tecnici riuniti – anche se purtroppo quasi solo a loro e non alla maggioranza dei professionisti attivi sul mercato – che non potessero esistere cortine in laterizio a vista che non prevedessero dei sistemi di finitura o di nobilitizzazione del cotto attraverso diverse tecniche e materiali. Si è parlato dei giunti realizzati in calce e poi stuccati con cocciopesto per avvicinarsi alla tonalità del mattone, giunti che prevedono anche numerose varianti nella lavorazione degli stessi al fine di conferire un migliore valore estetico (oltre che funzionale).
Sono stati presentati interessanti casi di velature monocromatiche (in prevalenza bianche o rosse) ed anche policrome che erano utili al completamento degli ornati: cornici ad elementi semplici o decorati con fregi a stampo e modanature complesse. La vista delle ricostruzioni ideali di questi apparati decorativi o semplici ordini architettonici a vista, caratterizzati dal tradizionale “rosso cotto”, ci suscita forse la stessa sorpresa (ma non l’impressione) che avrà provato il Winckelmann nel vedere i disegni del Partenone in “multicolor”, solo che tra noi e le fabbriche in questione sono passati solo poche centinaia di anni che sono state però sufficienti a rimuoverne la coscienza tecnologica. L’uso di intonachini, anche di fattura notevole e tecnologicamente avanzata, impiegati a velare e mitigare cortine edilizie eseguite a regola d’arte che prima avremmo pensato a vista, ci dovrebbero suggerire una maggiore attenzione, un maggiore rispetto del dato materico che ci è stato tramandato. Si è infine ampiamente presentato i casi di oli, cere ed altre sostanze organiche tipiche dei restauri ottocenteschi che pongono oggi notevoli problemi conservativi e di pulizia di superfici che hanno attratto e fatto aderire il pulviscolo atmosferico e gli agenti inquinanti.

Sintassi e grammatica dell’architettura a confronto tra rinascimento e storicismo ottocentesco
L’altro tema di grande interesse, affrontato in numerosi interventi, soprattutto inerenti l’area ferrarese e milanese, riguarda sempre il tema delle finiture sulle facciate in cotto ed in particolare il rapporto di bicromatismo tra partito architettonico e sfondato. Il tema interessa in particolare l’inversione cromatica, nel ruolo attribuito alle finiture, nel rapporto tra gli ordini architettonici e lo sfondato, che avviene negli interventi storicisti ottocenteschi su edifici rinascimentali. Se il quattro e il cinquecento, almeno nelle aree del cotto, vedono l’impiego di finiture bianche per segnalare gli ordini in contrasto con fondi rossi, del color del cotto, ottenuti con semplici velature o con finte cortine ad intonaco; l’ottocento, nella sua reinterpretazione dell’architettura rinascimentale lascia in vista il laterizio del partito architettonico, potenziandone anche la cromaticità con oli pigmentati con terre rosse, velando lo sfondo con tinte chiare (bianchi o gialli). In molti casi la resa bicromatica è ottenuta sostituendo elementi in terracotta molto rossastri nelle paraste o nelle cornici per opporle al tono generalmente chiaro delle murature. L’inversione non si deve naturalmente solo ad una modifica del gusto estetico, ma soprattutto alla cultura storicista e funzionalista, fortemente radicata dalla metà del XIX sec., che assume il mattone a simbolo della cultura architettonica italiana e ne enfatizza la visibilità perchè “la struttura si deve mostrare per quello che è” senza “le finzioni e le mimesi barocche” a costo di cancellare tutta una serie di lavorazioni che erano tipiche non del XVII o del XVIII sec. ma di una fase coeva alla realizzazione stessa delle cortine murarie.
Il tema, di natura squisitamente filologica, che può interessare principalmente per l’acquisizione di maggiori informazioni sulla storia dell’architettura pone però un problema di fondo nella cultura del restauro italiana: conservare l’interpretazione ottocentesca, anche quando vi sono tracce chiare della fase originaria, o riportare alla facies rinascimentale per restituire al monumento la sua più “corretta” interpretazione estetica e sintattica? La questione è evidente soprattutto quando ci si trova di fronte ad esempi, come il San Francesco ferrarese, dove oltre alle tracce residue della finitura rossettiana, si ritrovano elementi in pietra calcarea posti in punti nevralgici della struttura del partito architettonico, a costituire una memoria dell’aspetto originario. I relatori presenti si sono posti tutti in un’ottica conservativa, di rispetto della fase più completa a noi giunta, senza riproposizioni o nuove interpretazioni, ma resta il problema della divulgazione: l’architettura deve anche avere un valore didattico e in tal senso sfruttare le moderne tecnologie, come da decenni avviene per il mondo dell’archeologia, per illustrare le diverse configurazioni di una facciata nel tempo.

La prassi della sostituzione del cotto nell’Ottocento. Oggi, quale sostituzione?
Un tema ampiamente trattato, soprattutto da chi ha curato i grandi cantieri quali le certose di Pavia e Ferrara o la Ca’ Granda a Milano, è quello dei restauri ottocenteschi che, soprattutto nel caso delle terrecotte decorative, hanno portato a consistenti sostituzioni dei materiali originari con copie anche di ottima fattura. La tematica è strettamente connessa alla più ampia questione dell’integrazione della lacuna e del valore che si attribuisce all’elemento ripetitivo piuttosto che all’unicum. Come per gli affreschi si dibatte tra chi integra i motivi ripetitivi e geometrici con segni semplificati e chi conserva quanto giunto senza interventi di completamento, le terrecotte a stampo, come elementi seriali e ripetitivi (anche in fabbriche diverse come nel caso ferrarese), pongono la stessa questione. Qui però la tematica è forse più complessa perchè ci si trova di fronte ad elementi scultorei tridimensionali per i quali un’integrazione semplificata diventa estremamente riduttiva e d’altro canto l’assenza comporta un’interruzione notevole del partito decorativo. La questione rimane aperta a nuovi interventi e futuri confronti e gli interventi illustrati non si sono ancora inquadrati in una disciplina comune ma in una pluralità tipica delle fasi iniziali di sperimentazione. Sembra però prevalere una tendenza alla sostituzione dei pezzi assolutamente irrecuperabili ed alla conservazione di quelli parzialmente degradati. Il rischio di una progressiva sostituzione con copie, come faceva notare durante la sezione poster l’arch. Lolli Ghetti (direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche), è quello di una progressiva falsificazione dei nostri monumenti che si troveranno tra alcuni decenni a non avere più un solo frammento originario, mentre d’altro canto la sostituzione con elementi semplificati porterebbe ad una banalizzazione progressiva del manufatto.

Il mattone e la pietra: imitazione o indipendenza culturale e tecnologica?
L’ultima questione, proposta dall’arch. Acocella della facoltà di architettura di Ferrara, che poco è stata discussa nell’ambito degli interventi e che potrebbe costituire un interessate tema per il prossimo appuntamento, è il rapporto esistente, dal punto di vista linguistico e filologico, tra l’uso arcaico della pietra e quello più “moderno” del mattone. Il laterizio ricerca di imitare l’espressività del materiale lapideo rimanendo sempre in una posizione di inferiorità o assume caratteri e linguaggi indipendenti?
Il problema, anch’esso di pura analisi storica, rimane molto interessante perchè permetterebbe di indagare lavorazioni molto diffuse di graffiature e velature del mattone che restano ancora difficilmente interpretabili dal punto di vista del linguaggio dell’architettura.
Il professore nel suo intervento sosteneva la teoria della sudditanza tecnologica del laterizio rispetto alla pietra: quando con una cortina a vista ricerca le lisce superfici dei grandi conci dell’età classica; ancora nel momento in cui, con lavorazioni di graffiatura o bocciardatura, cerca di ricordare le tipiche lavorazioni della pietra decorata o quando infine con velature chiare si maschera il colore rosso per avvicinarlo al nobile marmo. Suggestioni estremamente interessanti che andrebbero però indagate più dal punto di vista tecnico ed eventualmente archivistico per comprendere se sono interpretazioni in ottica contemporanea di comportamenti e tecnologie che non avevano questa pretesa o se realmente la tecnologia del cotto fosse rivolta all’imitazione povera della pietra. Nell’indagare le lavorazione bisognerebbe anche coinvolgere le murature in terra cruda, che se pur esigue nel territorio italiano, rappresentano il punto di partenza per lo sviluppo del mattone cotto, e quindi il suo principale riferimento storico. Non è poi esatto in assoluto che la pietra fosse un materiale sempre a vista, tanto che fin dall’epoca romana veniva dipinta per rendere omogenea la superficie e poterla poi colorare con pigmenti e tinte sgargianti.

Il convegno, con l’immensa mole di informazioni che ci ha offerto ci ha reso coscienti del fatto che gli sudi scientifici, le analisi di laboratorio e le ricerche storiche ci consentono oggi di leggere questa complessità delle strutture in cotto, ma dopo la trasmissione e la condivisione di questi saperi tra i tecnici e gli studiosi del settore, ci dovremmo imporre di trasmettere ai più questa coscienza rinnovata per evitare che si ripetano, per ignoranza, quegli interventi di restauro brutali che quotidianamente sottraggono all’edificato storico la sua eterogeneità, tendendo ad uniformare le facciate ad un gusto che si nutre di stereotipi errati e fin troppo radicati. Se ancora oggi imperversano, in regioni meno aggiornate dal punto di vista della cultura del restauro, sabbiature di murature, decorticazioni di intonaci in calce e appiattimenti dei partiti architettonici, è perchè l’intervento conservativo non è sempre facilmente interpretabile dai non addetti ai lavori. Conservare tout court un restauro ottocentesco, senza un’adeguata informazione, può portare anche alla conservazione dei significati ideologici ad esso connessi, significa riconoscere ancora al mattone “nudo e crudo” (si badi, non “a vista” che come il convegno ha ben mostrato è un carattere ben più complesso) un valore che non possedeva nel momento della sua realizzazione. Le tecnologie moderne ci consentono di visualizzare, anche con modelli virtuali, esemplificazioni delle fasi di un edificio per aiutare a capire che quello che noi oggi conserviamo non è necessariamente una situazione sintatticamente originaria, ma una delle tante situazioni. Boito sosteneva l’esigenza di salvare, attraverso la fotografia, l’immagine precedente ad un restauro; quest’operazione, che oggi può essere molto più significativa con le nuove tecnologie, non dovrebbe essere un’operazione tecnica di routine, ma un atto di conservazione rivolto alla divulgazione. I monumenti inevitabilmente si perderanno nel tempo, o per il naturale decadimento o per i restauri (anche la più piccola sostituzione) ma è nostro dovere trasmettere i dati acquisiti perchè questi sono durevoli.
Il restauro, oltre alla conservazione del manufatto, dovrebbe porsi un obiettivo didattico, cercando di integrare la Storia dell’Architettura per superare gli schematismi e la forzosa geometrizzazione di un processo culturale più ampio che mal si rappresenta con foto in bianco e nero e rilievi talmente esatti da risultare ideali.

Ambrogio Keoma

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