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Casa delle Armi a Roma di Luigi Moretti*


Casa delle Armi a Roma (1933-1936) di Luigi Moretti. Veduta esterna.
(foto tratta da Architettura fasc. VIII, 1937)

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“L’ultima grande stagione dell’architettura italiana si inscrive nel ventennio compreso fra le due guerre mondiali. Le opere maggiori, prevalentemente edifici pubblici, sono contrassegnate nella quasi totalità dall’adozione di materiali litici nazionali declinati progettualmente sia in forme convenzionali, dalle correnti più tradizionaliste, che in forme innovative dai giovani architetti emergenti.
L’architettura moderna italiana – che pure guarda e attinge al nuovo repertorio di forme, di spazialità, di soluzioni tecniche sperimentali delle avanguardie d’Oltralpe – si presenta soprattutto alla fase cruciale degli anni Trenta con caratteri del tutto singolari nel processo di rinnovamento. Negli edifici più rappresentativi sembrano emergere – pur nella specificità e diversità delle opere – due caratteri dominanti. Il primo attiene all’estetica delle superfici e dei volumi, all’immagine stessa dell’architetttura sospesa fra tensioni innovatrici e atmosfere di tradizione; il secondo investe, più specificatamente, la concezione dello spazio.
Negli esterni il largo e diffuso impiego di rivestimenti litici posti a conferire tratti rappresentativi ad un’architettura civile, pubblica costituisce il contributo più peculiare ed originale della ricerca italiana che, così, si distingue rispetto all’uso di materiali industriali, di superfici ad intonaco ricorrenti nelle opere delle avanguardie europee.
Gli ambiti operativi per promuovere il rinnovamento del linguaggio architettonico attengono prevalentemente alla re-interpretazione dei tradizionali elementi della costruzione stereotomica in pietra: basamento, cintura muraria, cornici, architravi, catene angolari. In tale azione si consumano molto delle tensioni creative e della carica sperimentale dell’architettura italiana.
Le superfici marmorizzate saranno ripensate e definite “elemento per elemento”. L’apparente semplicità ed unitarietà di tali involucri omognei è conseguita, nelle opere più eccelse, mediante soluzioni di raffinata precisione. Le connessioni fra ossatura portante e rivestimento, fra pareti continue ed aperture, fra lastre sottili ed elementi speciali in massello, fra piano verticale e suolo diventano i temi fondanti del progetto da cui si distillano i lemmi del nuovo linguaggio dei rivestimenti dagli accenti non convenzionali.
Ne derivano superfici e figure architettoniche essenzializzate, asciutte, prive di ogni retorico riferimento alla tradizione eppure portatrici di una implicita continuità storica, di una raffinata e moderna evoluzione della concezione classica. Lungo questa direzione le opere di Giuseppe Terragni, Adalberto Libera, Luigi Moretti – per fare solo i nomi più emblematici e conosciuti – si presentano alla stagione del rinnovamento dell’architettura moderna europea con realizzazioni che valgono come autentici capolavori, capaci di parlare ancora oggi alla ricerca contemporanea.
Se l’architettura delle avanguardie europee si definisce sotto il profilo costruttivo prevalentemente attraverso intelaiature strutturali con pilastri, travature, setti parietali in calcestruzzo armato o in acciaio che assumono un valore autonomo, enucleabili all’interno degli organismi edilizi e spaziali, la cultura progettuale italiana non azzera completamente i caratteri connessi alla costruzione muraria, pur impegnandosi nell’evoluzione del muro in superficie di chiusura perimetrale.
L’introduzione della tecnologia del calcestruzzo armato non incide – se non indirettamente – sul rinnovamento dell’architettura moderna italiana in quanto il sistema a pilastri e travi non viene assunto e riproposto secondo la concezione delle avanguardie. I telai strutturali sono quasi sempre integrati da orditi murari chiudenti di tipo tradizionale in pietra o in laterizio dando vita così – nel complesso – a soluzioni costruttive di tipo composito.
Il dispositivo costruttivo tipico dell’architettura italiana degli anni Venti e Trenta (diffusosi soprattutto all’interno degli edifici finanziati dalla Stato) va così ad occupare un posto autonomo, originale ed equidistante sia dagli organismi stereotomici tradizionali (basati sulla muratura portante), sia da quelli moderni di natura tettonica (che adottano telai e scheletro strutturale di tipo lineare). (1)
Come abbiamo già evidenziato, vi è un secondo aspetto peculiare che contraddistingue la ricerca della cultura italiana, lungo lo svolgersi degli anni Trenta, legato in particolare alla concezione dello spazio architettonico. L’intensità di alcune realizzazioni è di tale livello da assumere un carattere autonomo e un valore confrontabile rispetto ai capolavori europei.
Se frequentemente nella storia contemporanea lo “spirito del tempo”, interpretato dagli uomini con eccessivo dogmatismo, ha introdotto una decisa componente deterministica al divenire dell’arte che traccia confini dai quali non è concesso uscire senza il rischio dell’esilio o dell’oblio, allora si capisce come il consacrare un unico punto di vista ad interprete autentico di un’epoca abbia potuto oscurare il talento di un grande architetto qual è Luigi Moretti.
A noi piace pensare, invece, alla co-esistenza in ogni presente di opere che condensano e solidificano in se stesse tutte le energie latenti delle tendenze artistiche egemoni dell’epoca (afferenti allo Zeitgeist di hegeliana memoria) ed opere che – meno “folgorate” dal presente – attingono all’interno dei “tempi nuovi” senza cancellare completamente il passato. Queste ultime, rifuggendo da un’adesione univoca al linguaggio artistico ritenuto come l’unica (o la più autentica) risposta ai tratti caratteristici dell’attualità, attendono spesso di essere scoperte o ri-scoperte, capite, apprezzate dallo sguardo degli uomini.
Le architetture di Luigi Moretti degli anni Trenta, differentemente da quelle di Mies e degli altri protagonisti acclamati del Moderno, riteniamo s’inscrivano in questa categoria. L’innata capacità dell’architetto romano di avvicinarsi alle preesistenze storiche – di viverle intensamente, soprattutto – lo porta a sviluppare un rapporto istintivo, che annulla il tempo e le sue contingenze per far emergere i nuclei fondativi dell’architettura: spazialità, costruzione, superfici. L’attitudine a proiettare l’essenza del passato sul presente sottoponendola al confronto con le ricerche contemporanee, di cui è un sottile e critico conoscitore, gli consente di proporsi come personalità poliedrica e complessa del panorama dell’architettura moderna italiana.
Nei primi anni Trenta, quando il dibattito culturale trainato dall’azione delle avanguardie europee cresce di intensità spingendo i giovani ed emergenti progettisti italiani ad uscire allo scoperto, a confrontarsi con il linguaggio e le tecniche del Moderno, ritroviamo Moretti nella Casa del Balilla di Trastevere (1932-1937) a saggiare le potenzialità della struttura a telaio in calcestruzzo esplicitandola negli impaginati di facciata e valorizzando sequenze spaziali interne, fluide, sia pur con vuoti distinti dati in concatenazione. È l’esplorazione del nuovo universo figurativo.
A questo “saggio ricognitivo” nel territorio del Moderno corrisponde, negli stessi anni, la messa a punto di una linea più personale di mediazione fa accettazione di istanze contemporanee e decantazione del linguaggio di matrice classica dell’architettura. Tale percorso conduce Luigi Moretti – giovanissimo – ad intuizioni precoci, ad opere di altissima qualità e raffinatezza fra cui emerge, come un capolavoro, la Casa delle Armi (1933-1936), sede dei corsi dell’Accademia della scherma a Roma, alle pendici di Monte Mario nell’area meridionale del Foro Mussolini.
L’edificio si presenta alla città articolato volumetricamente secondo una strutturazione ad L, con corpi distinti collegati da un percorso in quota su due livelli. Il primo, completamente chiuso verso il viale nord-sud del Foro, accoglie la grande biblioteca a doppia altezza affacciata su di una galleria per la lettura ed illuminata da una grande superficie vetrata a tutt’altezza aperta verso il paesaggio del Foro. In corrispondenza dell’angolo, a cerniera fra i due volumi, la composizione architettonica mette in forma una elegante figura volumetrica ellittica destinata alla sala dei ricevimenti. Nel secondo corpo di fabbrica, perpendicolare al primo, trovano posto la grande Sala d’Armi (con superficie libera di 45×25 m per l’attività agonistica di 160 atleti), i servizi di spogliatoio e di doccia distribuiti su tre livelli affacciati su una galleria e i servizi particolari localizzati nel seminterrato.


Casa delle Armi a Roma (1933-1936) di Luigi Moretti. Sezione.

Moretti sottopone la composizione dell’opera ad un trattamento riunificante e rigoroso; in particolare assegna un’altezza costante ai due volumi (ricongiunti in quota da una soletta) e poi li “modella” attraverso una configurazione regolare, stereometrica sfruttando un rivestimento avvolgente in marmo statuario venato di Carrara. La “scorza” marmorea omogenea del rivestimento prosegue, poi, grazie all’impiego di marmo bianco Carrara, attraverso scalee poste alla base dei volumi a saldarsi al suolo dei piazzali, della grande vasca d’acqua, del pavimento esterno. Tutto appare come un ininterrotto blocco monolitico di marmo, pura geometria stereotomica. Raffinatissimo è il trattamento delle superfici esterne per le quali l’architetto romano produce dei disegni esecutivi accuratissimi con la repertorizzazione formale e dimensionale delle lastre e dei numerosi pezzi speciali.
Se valori d’interni, dalle fluide ed eleganti prospettive, già si colgono nel corpo della Biblioteca, è nella Sala d’Armi che lo spazio lievita, fluttua sotto la modulazione della luce e la compressione della materia.
Nella grande sala, ottenuta grazie ad una soluzione strutturale ingegnosa impostata su due mensole giganti in calcestruzzo armato (con sezione parabolica di diversa altezza e portata, contrapposte e completamente indipendenti), si è accolti, con stupore ed emozione, in uno spazio non “cubico” e strettamente unitario. Uno spazio denso, stabilizzato nel suo monumentale “stampo cavo” le cui superfici continue appaiono ferme e leggiadre grazie ad una modulazione dei flussi luminosi che “accarezzano” ogni parte del volume interno. La luce, materia essa stessa e forza disvelatrice dello spazio, penetra nella grande Sala delle Armi dall’alto, obliquamente, unidirezionata, attraverso l’apertura longitudinale ottenuta fra le due estremità delle mensole strutturali, diffondendosi radente lungo le superfici curve lisce di stucco bianco per poi rischiarare il piano pavimentale in marmo venato di Carrara al cui cntro insiste la pedana in linoleum.
Uno spazio unitario, solido, eloquente inscritto nella migliore tradizione dell’architettura spaziale italiana. Alla concezione di uno spazio completamente nuovo, di “rottura” (fluente, instabile, “debordante”, fatto di sfondamenti e trasparenze) alla maniera di Mies, Luigi Moretti oppone una visione aulica del vuoto, per certi versi retrospettiva, eppure sostanzialmente moderna fatta di atmosfere dense ed avvolgenti dove lo spazio – espanso monumentalmente nelle due dimensioni – vale per se stesso, senza cercare nell’altrove la propria ragione di essere. (2)
Tutta l’opera architettonica di Luigi Moretti degli anni Trenta ci sembra persegua una strategia ben precisa: usare gli strumenti della ricerca moderna per ritornare a confrontarsi con il retaggio del passato mantenendo, alla fine, viva una concezione dell’architettura solida, pacificata nei volumi interni, resistente alle scosse del tempo, alle oscillazioni del gusto e alla stessa disattenzione degli uomini.
Soffermandoci a riflettere oggi sullo stato di trasformazione sostanziale e di degrado in cui versa, da decenni, il capolavoro di Luigi Moretti – e dell’intera stagione del Moderno italiano – tenuto ancora in una assurda segregazione all’uso e alla fruizione pubblica, per contrasto, il nostro pensiero si è ricongiunto alla lungimiranza della cultura contemporanea spagnola che, invece, in assenza della tangibile realtà del Padiglione di Barcellona di Mies distrutto a pochi mesi dalla conclusione dell’Esposizione, ne ha promosso qualche decennio fa una fedele ricostruzione, riconsegnandola alla collettività internazionale e ai processi di conoscenza e di godimento estetico.
Ci auguriamo che i recenti proponimenti politici e i relativi protocolli istituzionali riportino la Casa delle Armi allo stato d’origine, restituendole lo splendore dei volumi e il fascino dei suoi nitidi spazi interni, obliterati, prima, da una storia dell’architettura tendenziosamente “ideologica” e, poi, da una cultura di Stato disinteressata ai valori dell’architettura contemporanea.”(2)

Alfonso Acocella

(*) Il brano rieditato è tratto dall’Introduzione “Tempo lineare, Tempo circolare” pp. 13-15 del volume Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

(1) Si devono a Sergio Poretti i primi ed approfonditi studi sui caratteri costruttivi e formali dell’architettura moderna italiana fra le due guerre mondiale con particolare riferimento alle nuove applicazioni dei materiali lapidei. Al riguardo si vedano: Progetti e costruzione dei palazzi delle Poste a Roma 1933-1935, Roma, Edilstampa, 1990, pp. 246; “Le tecniche costruttive negli anni Trenta tra modernismo ed autarchia. Una nota sulla Casa del Fascio”, pp. 307-320, in Maristella Casciato et al. (a cura di), 150 anni di costruzione edile in Italia, Roma, Editalia, 1992, pp. 567; La Casa del Fascio di Como, Roma, Carocci, 1998, pp. 130. Di più recente pubblicazione è lo studio di Federica Dal Falco, Stili del Razionalismo. Anatomia di quattordici opere di architettura, Roma, Gangemi Editore, 2002, pp. 531.

(2) Sulla Casa delle Armi si vedano il dettagliato e puntuale articolo di Plinio Marconi, “La Casa delle Armi al Foro Mussolini in Roma”, Architettura fascicolo VIII, 1937, pp. 435-454 e la recente monografia di Roberta Lucente, Casa delle Armi al Foro Italico, Torino, Testo e immagine, 2002, pp. 93. Sull’opera generale dell’architetto romano si veda: Federico Bucci e Marco Mulazzani (a cura di), Luigi Moretti. Opere e scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 226.

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