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18 Aprile 2008

Progetti

“Corpo architettonico” e “protesi paesaggistica”

Due progetti recenti di Cherubino Gambardella dimostrano come la ricerca contemporanea tenda a superare la distinzione classica tra opposizioni dialettiche quali paesaggio e architettura, linguaggio e processo, artificio e natura, senza per questo rinnegare le rispettive specificità. Tale discorso sui “generi” si sviluppa all’interno di una nuova visione olistica del progetto, in cui la diversità degli apporti aspira a estendere reciprocamente ruoli e funzioni, oltre i limiti di un approccio convenzionale, all’interno di una infinita moltiplicazione di significati.

Vita e rappresentazione tra empirismo e tradizione neorealista

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L’intervento di via Cupa Spinelli prevede la sostituzione integrale di una serie di edifici realizzati con sistemi di prefabbricazione pesante. Il lotto che ne risulta, restituito all’originaria morfologia, lievemente digradante da nord a sud, viene articolato secondo due distinti nuclei tematici, che corrispondono a fasi successive di programmazione del cantiere.
Una cortina edilizia perimetralmente chiusa su tre lati – nord, est e sud- a ridefinire il bordo del terreno edificabile, è scandita dalla ritmica discontinuità degli elementi in linea, la cui regolare ripetizione viene interrotta nelle soluzioni d’angolo, intenzionalmente site-specific. I singoli fabbricati, che si elevano per cinque piani, risultano impostati su di un sistema a pilotis che conferisce unità al complessivo attacco a terra e accoglie piccoli esercizi commerciali, disponendosi a una distanza dal confine dell’area tale da consentire la realizzazione di una fascia di parcheggi pertinenziali serviti dal relativo corsello.
La porzione centrale del lotto è contraddistinta dalla libera disposizione di elementi in linea, di altezza variabile dai tre ai quattro piani fuori terra, che definisce un sistema integralmente pedonale di spazi di vicinato, univocamente connotati nelle reciproche gerarchie e relazioni qualitative dall’unicità degli affacci- rigorosamente distinti in relazione agli ambienti di vita- e delle giaciture edilizie.
Ogni edificio insiste su di un piano lievemente rialzato rispetto alla circostante quota di campagna e risulta recintato da “muri a bolla” rivestiti di materiale lapideo, il cui organico profilo entra in un rapporto di vibrante tensione con la regolarità dei corpi di fabbrica e concorre alla realizzazione di un’atmosfera più informale nell’interazione dinamica tra pertinenzialità dirette a uso esclusivo e connettivo di pubblico interesse, scandito da un tessuto lineare di fasce a verde, parzialmente piantumate, ordite in direzione nord-sud.
La viabilità carrabile interna all’area si sviluppa in fregio ai fabbricati disposti sul perimetro, così da consentire l’accesso alle retrostanti pertinenze attraverso i varchi tra due successivi elementi in linea e servire contestualmente il nucleo centrale erodendone in parte le frange inerbite per consentire la realizzazione di parcheggi a raso e di aree attrezzate per lo sport.

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La proposta di Cherubino Gambardella sembra attualizzare una ricerca sul quartiere residenziale avviata in Europa a partire dagli anni ’40, che registrò un fertile scambio di prospettive tra empirismo scandinavo e tradizione neorealista. Prendendo consapevolmente le distanze da una facile e pericolosa deriva citazionista, l’autore ne rielabora i principi di base, illuminandoli con una sensibilità mediterranea del tutto appropriata al contesto di appartenenza. Il ricorso a moduli edilizi standardizzati, imposti dal programma, stimola la ricerca di condizioni di eccezionalità tanto a livello di tessuto edilizio quanto in termini di linguaggio architettonico. Attraverso l’azione del “recingere”, l’edilizia perimetrale di bordo definisce preventivamente la “scena” dello spazio pubblico, articolandone sapientemente le soglie e gli ingressi con soluzioni che derogano rispetto alla norma complessiva. La “narrazione” è lasciata alla libera disposizione dei corpi di fabbrica che ne occupano il centro. La divergenza programmatica delle giaciture, unita alla contestuale perimetrazione delle rispettive aree di influenza pertinenziale, esaspera l’unicità e irripetibilità dei condizionamenti, pur nel rispetto della uniformità della sostanza edilizia. L’inclinazione dei raggi solari, investendo i corpi solidi con diversa incidenza, ne amplifica l’individualità e l’isolamento metafisico, rendendone vibrante lo spazio sotteso, mentre il ricorso all’elemento verde con funzione di spazio connettivo è contemporaneamente un omaggio, con variazione di scala, alla tradizione della città moderna e al “tumulto nell’insieme” del bosco urbano laugeriano.
L’ossimoro pare essere la figura retorica che riconduce le scelte architettoniche a quelle urbanistiche. La plastica stereometria dei volumi, rafforzata dalla precisa incisione delle finestre di tradizione moderna- con dirette citazioni nelle soluzioni a nastro- è puntualmente contraddetta dal disegno dei balconi, la cui varietà allude all’inevitabile processo di appropriazione spontanea dello spazio da parte dei futuri abitanti: negli edifici di bordo ad intonaco tinteggiato, attraverso pareti di laterizio che si raccordano alle solette descrivendo motivi arabescati; negli elementi in linea disposti al centro della scena, rivestiti di klinker, con l’introduzione di bow-window intonacati le cui proporzioni e bucature esasperatamente strombate da sguinci in gesso sporgenti rammentano l’ineludibilità della “stanza” quale principio generatore della casa mediterranea.
La scelta delle tinte pastello, in toni di rosa, giallo, verde e azzurro, pare rispondere all’intenzione di saturare il colore con la luce naturale, dissolvendo così la presenza dei volumi nell’ambiente atmosferico.

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Affermando il comune sostrato “tipologico” e negandone allo stesso tempo l’implicita assertività normativa attraverso la calibrata disposizione “topologica”; assumendo lo spazio pubblico come “ordito” primitivo di progetto ed incrinandone successivamente la stabilità attraverso la progressiva erosione della “trama” degli usi privati; definendo il dominio collettivo nella dimensione unificante del singolo edificio e aggredendone simultaneamente l’assolutezza attraverso l’esasperata appropriazione individuale degli spazi pertinenziali in aggetto il progetto rivela indirettamente la complessità del tessuto culturale contemporaneo, in cui vita e rappresentazione sfumano reciprocamente nei rispettivi domini, senza negare per questo la necessità del linguaggio e l’imprevedibilità dei comportamenti.

Paesaggio mediterraneo, città di fondazione e tradizione pittoresca

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La costa salentina è articolata da un sistema di ampi e piatti crinali che, staccandosi dalla dorsale pugliese interna, già sede della viabilità di attraversamento romana, precipitano nelle profondità marine con picchi improvvisi, assumendo le forme di un’alta quanto spettacolare falesia rocciosa. La superficie del paesaggio è ammorbidita dalla presenza di un diffuso compascuo, cui l’arsura e la secchezza dell’aria, tagliata da una luce “razionale”, conferisce il caratteristico color paglierino, sporadicamente interrotto dall’informale macchia mediterranea e dall’alternarsi degli appezzamenti rigorosamente orditi degli uliveti e degli orti.
Il progetto insiste all’interno di un frammento di tale scenario, nel pressi della famosa stazione termale di Santa Cesarea. Si tratta di un centro turistico per 3000 ospiti, la cui presenza si vuole integrata nel paesaggio, tanto per ragioni estetiche quanto per rispondere a più generali principi di sostenibilità delle scelte urbanistiche e architettoniche, a cui sono ascrivibili le soluzioni di orientamento rispetto al sole e ai venti dominanti, il ricorso a pannelli fotovoltaici e i dispositivi per la raccolta della acque meteoriche ad uso sanitario. La multiforme conformazione delle trame vegetazionali e il relativo diverso grado di artificialità offrono lo spunto per l’impostazione complessiva del sistema urbano: la spina centrale, che culmina con una piazza collettiva aperta prospetticamente sul mare e integra residenze con zone coltivate a ulivo e frumento, riprende la regolare orditura di un impianto di fondazione, mentre i quartieri periferici si dispongono a guisa di isole tematizzate in base alle diverse essenze connotanti- agavi, ginestre, pini e ulivi- che interpretano le sottili variazioni orografiche della sottostante topografia assorbendole nel proprio disegno, mentre l’approdo a mare si dispone secondo le linee di massima pendenza, “mineralizzandole” al grado minimo necessario per l’uso funzionale. Artificio e natura, vita e rappresentazione coesistono nello strato superficiale che agglutina le diversità, cortocircuitandone il senso complessivo, all’interno di un’unica impronta generatrice che non aspira a ricomporle in sintesi di livello superiore.

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La prevalente dimensione pittoresta del paesaggio antropico locale, che deriva da un singolare adattamento dell’azione umana alla “preesistenza ambientale”, nelle sua irripetibile unicità di accadimenti, viene ribadita nelle scelte di scala edilizia e architettonica. Le residenze individuali- a schiera e a patio-si dispongono secondo aggregazioni multiple perimetralmente chiuse che assimilano la propria conformazione organica all’andamento delle curve di livello naturali, stratificando linguaggio a dato reale e conferendo alla modellazione del suolo un insolito spessore materico e semantico.
La ricerca di una relazione osmotica con il supporto naturale informa le soluzioni materiali. Muri a secco in pietra calcarea locale, riprendendo una tradizione ampiamente diffusa nell’area, perimetrano gli ambiti pertinenziali individuali, qualificando in termini omogenei, senza apparente soluzione di continuità, tanto il profilo dei percorsi pedonali di servizio quanto l’elementare nucleo generativo delle singole abitazioni, mentre la trama leggera degli schermi paravento, dei velari e dei balconi in diafane strutture metalliche ne impreziosisce la morfologia complessiva simulando l’informe adattamento dell’elemento naturale, la cui massa porosa e ramificata progressivamente ne ammorbidisce i profili, alla presenza artificiale, oramai ridotto a simulacro di una incipiente rovina.
La polifonia architettonica complessiva è amplificata dall’uso ricorrente di inserti la cui varietà volumetrica e materiale intacca la primitiva semplicità dei volumi lapidei di base e delle relative recinzioni, in un persistente gioco di specchi in cui adattamento antropico e fenomenologia naturale si riverberano l’uno nell’altra, ampliando i reciproci confini.
L’assimilazione del linguaggio architettonico al comportamento del paesaggio naturale produce una condizione di programmatica dissolvenza che amplifica le reciproche prerogative sovvertendone l’univocità dei ruoli: il paesaggio si trasforma in “corpo architettonico” mentre l’architettura ne estende le funzioni in quanto sua “protesi naturale”.

Nicola Marzot

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