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15 Maggio 2006

Ri_editazioni

Dimitris Pikionis ad Atene:*
cammini di pietra, recinti di sogni


La pubblicazione dell’articolo su "Interni"

“Convinto che la Grecia fosse un ponte tra Oriente ed Occidente, Dimitris Pikionis, architetto moderno nato ad Atene, ha coltivato per tutta la vita, nel suo animo, i germogli di una cultura meticcia attenta alle relazioni nascoste, agli sconfinamenti, al ricorrere, in campi apparentemente lontani tra loro, di cose simili. Non è stato il solo a farlo nel tempo in cui la sua patria cercava di risorgere faticosamente da secoli di declino e occupazioni. Attorno al 1930, artisti, scrittori, poeti hanno perseguito in Grecia il sogno di dar vita ad una cultura nuova, espressione di una modernità che non escludesse il passato, un passato differente da quello falsificato dai luoghi comuni e sbiancato dalle accademie, simile piuttosto ad un territorio fisico e spirituale denso di intrecci e solcato da percorsi. Presenza fondamentale all’interno di questa comunità intellettuale, Pikionis, è attratto dalla pluralità di tradizioni che hanno contribuito a costituire una cultura di eccezionale importanza come quella greca e a plasmare un comune territorio mediterraneo sino a farne la culla e lo sfondo di miti universali. Egli ha incrociato la conoscenza di queste tradizioni con la passione per l’arte moderna che ha avuto modo di conoscere, lui architetto per caso ma nel profondo pittore e poeta, come studente di belle arti a Monaco e poi a Parigi. Cèzanne, Klee, Kandinskij, i pittori dell’avanguardia hanno contribuito così alla sua formazione come il neoclassicismo metafisico di De Chirico, suo estimatore e amico dai tempi dell’università. Dentro la fucina del suo spirito il cubismo si è fuso con l’archeologia, le tecniche costruttive della Grecia interna con l’architettura giapponese, un paesaggio ormai snaturato, come quello greco del suo tempo, con la capacità dei giardini Zen di evocare significati profondi. Organizzatore culturale con la rivista Il terzo occhio, importatore, tramite questa, in Grecia, dell’arte d’avanguardia europea, professore stimatissimo di intere generazioni di architetti greci, Dimitris Pikionis ha percorso incessantemente i sentieri ramificati che il suo sguardo visionario gli faceva rintracciare nella cultura del suo tempo e ha restituito generosamente a studenti e lettori il frutto delle sue ricerche. Da questo punto di vista la sua opera di ricostruzione culturale è stata ancora più importante di quella svolta nel campo dell’architettura. Sono infatti soprattutto i suoi scritti e i suoi eccezionali disegni a trasmetterci con chiarezza la geografia dei suoi pensieri e l’entità del suo sforzo. Poche volte, invece, ha avuto la possibilità di rendere in un’opera architettonica la complessità delle sue visioni. Una scuola neorazionalista ad Atene, un’altra più tradizionale a Salonicco, alcune raffinate case per amici, pochi frammenti di comunità immaginate e progettate con poeti ed artisti sono la quasi totalità del prodotto del suo lavoro di architetto, prima delle due occasioni della sua vita: il parco dell’Acropoli e il parco giochi di Filothei. Ma anche in questo caso si tratta di progetti marginali, almeno nelle intenzioni dei committenti, affidati ad un architetto già avanti con gli anni a mo’ di tardivo riconoscimento. Sistemazioni apparentemente senza peso: nel primo caso il rifacimento di una pavimentazione e nel secondo il recupero di un terreno di risulta alla periferia di Atene.


La copertina di "Interni" n. 3 del marzo 2004
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Ma qui, tra I’Acropoli e il quartiere di Filothei, negli ultimi anni della sua carriera, Pikionis lascia due capolavori assoluti in quella disciplina che aveva, in fondo, poco amato. A ben vedere, nel caso di queste opere, non si tratta specificamente di architettura bensì di arte in senso lato. Arte che anticipa temi e relazioni che solo molto più tardi gli artisti europei incominceranno a praticare. Premessa di land-art, adagiata su di un terreno da cui sa spremere significati e simboli. Geniale manipolatrice di spazio e tempo e rappresentazione concreta dei pensieri che da sempre hanno accompagnato l’architetto greco e che finalmente all’età di settant’anni riesce a ricongiungere con quel terreno dall’osservazione del quale hanno tratto origine.
Sotto I’Acropoli, lungo sentieri che sembrano mosaici o incisioni, l’essenzialità dei giardini di rocce giapponesi si sposa con le linee di Klee o di Mondrian e tra gli alberi del parco decine di tracce evocano, ricordano, interpretano un passato complesso usando i lacerti del tempo presente. Le traiettorie che i segni sul terreno tracciano conducono lo sguardo verso i monumenti ed il pensiero verso la ramificata storia di cui questi costituiscono la vetta più alta. Frammenti archeologici si mischiano, nella pavimentazione della chiesa di S. Dimitris Loumbardiaris o nei muri dei sentieri, con pezzi di macerie, lastre di marmo con placche di cemento, sassi con scarti di cava. II paesaggio attico, da molto tempo scomparso nella sua integrità, ritrova vita nelle micro composizioni sparse sul percorso, in alvei ristretti dove il senso dei luoghi si rinnova e i significati originari che sprizzano dalle pietre si confondono con altri, distanti secoli nel tempo reale ma vicini nel gioco analogico che regola il susseguirsi delle forme e delle idee nella storia.
A Filothei sono i sogni dei bimbi, intrecciati con i miti della terra greca, a divenire costruzione e, una volta di più, paesaggio. Non vi è alcun disegno che possa dare testimonianza della logica compositiva perchè qui, ancor più che all’Acropoli, la matita e il tavolo da disegno sono sostituiti dai passi, dagli sguardi e dai ricordi.
Case giapponesi, tukul, fasciame di barche, ponti interrotti, bivacchi appena lasciati, si susseguono nel piccolo appezzamento di terreno una volta oltrepassata una porta di legno che separa nettamente due mondi. Quello comune di un quartiere residenziale posto ai bordi della città e quello fantastico di un recinto dove le percezioni spazio-temporali si dilatano grazie alla capacità poetica di un vecchio maestro.
Cammini di pietra e un recinto di sogni sono dunque il lascito più grande dell’architetto che come i grandi artisti del passato aveva coltivato e plasmato la capacità di dare significato e profondità anche ai segni più lievi”.

* testo di Alberto Ferlenga, fotografie di Daniele De Lonti, pubblicato da "Interni" n. 3 2004.

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