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Cimitero a Longarone di Gianni Avon, Francesco Tentori e Marco Zanuso (1966-1972) *


Il volume cilindirico emergente in prossimità dell’ingresso (foto Alfonso Acocella)
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È il luogo dei morti del Vajont.
Progettato nell’ambito della lunga opera di ricostruzione seguita alla tragica notte del 3 ottobre 1963, il camposanto è situato a Muda Maè, una piccola località vicina a Longarone incastonata tra i dirupi della Val Zoldana.
Anzichè configurarsi per volumi fuori terra, il progetto di Avon, Tentori e Zanuso si articola per spazi a volte scavati, altre appena emergenti dal suolo, posti in sequenza lungo un percorso che si svolge in trincea, come a voler dimostrare che il lavoro umano non ha sottratto nulla alla natura. Le pareti degli scavi condotti nel ventre della montagna, sono foderate con la stessa roccia asportata dal pendio, dando vita a spesse murature in elementi grossolanamente squadrati.
Argini litici dalla tessitura irregolare, a ricorsi interrotti, sdoppiati o ripianati con zeppe, setti dalla superficie scabra che, snodandosi nel bosco, ricordano le murature di confine dei poderi di montagna più che il limite di un cimitero. Alla discontinuità dei giunti, in corrispondenza dei quali i bordi dei massi a tratti si toccano o si allontanano, è affidata la narrazione di un magistero esecutivo per nulla codificabile attraverso canoni fissi. La pietra locale, grigio argentea, ritorna nelle pavimentazioni in forma di grandi lastre alternate a laterizi e a ciottoli di fiume.
La “riservatezza” progettuale non si esprime soltanto nell’accettazione dei materiali del luogo ma anche nella scelta di non imporsi nel contesto naturale, di rifuggire da ogni ambizione di retorica architettonica. L’impianto del camposanto, tutto risolto al di sotto della quota di campagna, presenta un percorso di spina su cui si innestano camere poligonali o recinti circolari a ricordare arcaici toloi. Da questi spazi chiusi fino all’altezza dell’occhio dai muri o dai loculi in cemento nudo, non è impedita la vista del severo paesaggio circostante, dominato sullo sfondo dall’immota ed incombente presenza della diga.
In una catena di episodi spaziali sobri, intimi e diversamente caratterizzati, il visitatore si può raccogliere in preghiera, recuperando un rapporto personale almeno con la memoria di chi si è perso nell’anonimato di una morte di massa.
“Nel suo pudico mimetismo, l’opera di Muda Maè appare come anti-cimitero, se intendiamo come cimitero tutto quello che di geometrico, ortogonale, architettonicamente evidenziato appartiene al tipo canonico. Vi si riflette forse l’esperienza di chi ha direttamente partecipato – con la catastrofe del 1963 – al dramma di una comunità privata anche della propria fisionomia insediativa. La scelta di un profilo basso per il nuovo camposanto, il proposito di attenuarne la presenza nel contesto e di realizzarlo in forme vicine più alla tradizione rurale che agli standard cittadini, tutto questo ci appare come un tacito risarcimento nei confronti di chi ha dovuto subire un eccesso di ratio progettuale”1.

Davide Turrini

(*) Il saggio rieditato è tratto dal volume di Alfonso Acocella,
L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1Gianni Avon. Architetture e progetti 1947-1997, Venezia, Marsilio, 2000, pp.155.

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