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18 Settembre 2006

Interviste Pietre dell'identità

Luigi Prestinenza Puglisi intervista Alfonso Acocella


Alfonso Acocella

Luigi Prestinenza Puglisi: Una auto-presentazione in quattro righe…
Alfonso Acocella: Ostinato, empatico, curioso, creativo, esecutivo, perfezionista, “indipendente”. Amante sin dalla formazione universitaria della tradizione dell’architettura d’Italia e – conseguentemente – delle sue Pietre dell’Identità.
Attento, da sempre, all’innovazione architettonica – ma rifiutando il postulato dell’innovazione per l’innovazione – ed interessato ai risultati della sperimentazione quando capace di evolvere in qualità lo spazio di vita e di formalizzazione dell’ambiente.
Interessato, oggi, all’innovazione comunicativa per ambire a creare uno spazio pubblico di elaborazione intellettuale indipendente, libero, aperto rispetto al blocco accademico-critico-editoriale italiano.
Le righe sono più di quattro, ma lo spazio di internet è generoso e poco costoso. Confido nella tolleranza dell’intervistatore e, soprattutto, nella pazienza dei lettori.

L.P.P. Cosa ne pensi dell’ architettura in Italia oggi …
A.A. Nel Paese siamo alla “sopravvivenza” della disciplina progettuale e costruttiva. Quando giriamo, fruiamo, riflettiamo sul paesaggio artificiale costruito negli ultimi sessant’anni le attese sopravanzano rispetto ai risultati conseguiti. Aspettiamo, senza più molta fiducia, i Nuovi Rinascimenti che in molti ci annunciano. Continuiamo ad impegnarci – comunque – per la cultura e la qualità dell’architettura italiana con i nostri piccoli mezzi e le scarse possibilità di influire sul corso di una trasformazione epocale che appare sempre più quantitativa più che qualitativa, anche nei programmi che dovrebbero ambire a risultati di eccezionalità, di rappresentatività per il Paese.

L.P.P. Il nome di un architetto italiano vivente al quale faresti costruire casa tua…
A.A. La affiderei a me stesso. Come ho fatto dieci anni fa nel 1996. Casa per me, parafrasando – poi mica tanto – Curzio Malaparte.

L.P.P. Il nome di una star internazionale alla quale faresti costruire casa tua…
A.A. Vale quanto sopra. Mi confronterei, però, volentieri con John Pawson e – se fossimo in apertura del XX secolo, piuttosto che del XXI secolo – con Adolf Loos. Qualora, però, fossero entrambi viventi oggi penso che sceglierei il secondo.

L.P.P. Il nome di un edificio famoso che non ti piace affatto.
A.A. Villa Dall’Ava, anche se ritengo – caro Luigi – che non concorderai nel giudizio. Si potrebbe discutere sull’argomento – anche a più voci – sul blog_architetturadipietra.it.
Portiamo, se vuoi, i temi dell’architettura attuale e dibattiamoli sulla piattaforma partecipata e relazionale del dispositivo comunicativo.
Il silenzio al dibattito è sceso all’interno dei critici, dei teorici, dei cultori dell’architettura italiani.
Tutti i protagonisti “ufficiali” e “non ufficiali” della critica contemporanea invitati – qualche mese fa – alla discussione senza filtri e censure – sul ruolo, carattere e senso della critica d’architettura a partire dal pretesto di Casa Malaparte (presentata dal “bel” saggio di Vittorio Savi) hanno declinato nella totalità l’invito. Questa è la critica del nostro Paese. Ripartiamo da un polo opposto; riprendiamo allora da Villa Dall’Ava e sollecitiamo un confronto di idee.


Casa Malaparte. Salone.

Vai a Orfica, surrealistica. Casa Malaparte a Capri e Adalberto Libera

L.P.P. Quale è il tuo punto di vista sullo stato dell’Università oggi in Italia?
A.A. Un paesaggio intellettuale prevalentemente “addomesticato”, “liceizzato”, privo di vitalità oltre che di risorse economiche (indispensabili) per sviluppare ricerca, cultura, didattica e – soprattutto – incidenza nel mondo esterno.

L.P.P. L’università italiana…la consiglieresti? E se si in quale città? E a Ferrara?
A.A. Consiglierei per chi deve restare in Italia – per scelta o per condizionamento sociale – di guardare dentro la Cultura italiana (quella vera e profonda, del passato come pure moderna e contemporanea dovunque ravvisabile) e, soprattutto, dentro se stessi sviluppando con tenacia, ostinazione e lavoro le proprie capacità, se non il proprio talento. Ferrara, comunque, forse meglio che altrove. Ma senza trionfalismi da classifiche statistico-crono-quantitative e senza ipotesi di automatismi di qualità di apprendimento o di insegnamento.

L.P.P. Tre cose che faresti per l’Università se avessi la bacchetta magica…
A.A. 1. Istituirei Commissioni di selezione del corpo dei ricercatori e dei docenti unicamente formate da membri stranieri.
2. Aumenterei le retribuzioni di chi lavora nella ricerca e nell’attività didattica.
3. Aumenterei i fondi destinati ai programmi di ricerca e ai progetti culturali innovativi – nell’accezione che sembra richiedere oggigiorno l’economia globalizzata – valorizzativi delle risorse del Paese; quelle risorse paesaggistiche, d’arte, d’ambiente, dei prodotti locali del Paese non “copiabili” o delocalizzabili in altre parti del mondo.

L.P.P. La tua visione dell’architettura; autodefinisciti: reazionario, tradizionalista, moderato, organico, progressista, sperimentalista, avanguardista (o altro purchè la definizione sia al massimo di un paio di parole e non cercare di scappare alla domanda dicendo che sei oltre le sigle…)
A.A. Moderatamente innovativo.

L.P.P. Mettimi in ordine di preferenza i seguenti architetti: Eisenman, Koolhaas, Moss, Hadid, Herzog e de Meuron, Gehry, Coop Himmelb(l)au, Fuksas, Piano, Anselmi, Purini, Cellini, Portoghesi, Gregotti. (per cortesia non mettere pari merito). Se non vuoi rispondere a questa domanda puoi scegliere quest’altra: devi organizzare un importante concorso a inviti di architettura e ti danno l’incarico di invitare cinque architetti. Chi scegli?
A.A. Mi muovo a partire dalla seconda opzione contenuta nella domanda, anche se evidenzio che dovendo scegliere per un Concorso ad inviti avrei forse indicato cinque nomi diversi fra quelli che mi consegna l’elenco. Stando alla lista a disposizione: Piano, Herzog e de Meuron, Hadid, Anselmi, Cellini. Chiaramente i nomi scelti, di per sè, non assicurano automaticamente le attese di qualità riposte nella scelta dei nomi. È solo la concreta realtà dell’opera d’ architettura, alla fine, a poter esprimere valori. Gli stessi architetti esclusi – al di là della mia personale scelta che li mette provvisoriamente “fuori campo” – potrebbero produrre Progetto e, alla fine, esprimere Architettura più dei selezionati. L’architettura non è mai data, in partenza ma solo in arrivo.

L.P.P. Che ne pensi della Darc ? E che faresti se fossi al posto di Pio Baldi?
A.A. Con occhi che guardano a distanza noto un gran movimento di eventi ed iniziative promosse dalla DARC. Ma – senza volermi sottrarre alla domanda – mi mancano conoscenze dirette e/o ravvicinate per esprimermi sulla attività della DARC. Durante qualche incipit culturale di presentazione di eventi d’architettura ho avuto, comunque, qualche perplessità di approccio (di familiarità, di profondità, di empatia) al tema. Ma spero di essere stato presente nell’occasione sbagliata.
Per quanto riguarda, invece, un piano strategico per la DARC svolgerei un progetto culturale continuativo di alto profilo a favore delle nuove generazioni di architetti promuovendo presso le istituzioni nazionali ed internazionali una formazione professionale permanente, occasioni di concorsi d’architettura, seminari e laboratori di progetto a contatto con i talenti creativi europei ed italiani.

L.P.P. Ci parli brevemente delle iniziative connesse al tuo libro L’architettura di pietra?
A.A. Il “brevemente” mi frena e mi limita un poco rispetto a quanto in essere (o in avvio di svolgimento) a seguito di un anno intero di prefigurazioni e di impegno dedicato all’evoluzione del progetto cartaceo (ovvero il libro “L’architettura di pietra” che citi, a breve editato in lingua inglese per i tipi di Skira) verso l’innovazione comunicativa di internet (e al futuro, mi auguro, verso la “comunicazione mobile” legata alla informazione trasportabile su iPOD, GPS, smartphone); ma poi anche verso l’integrazione dei medium comunicativi di narrazione con la realtà umana e quella fisica del Paese attraverso il progetto che evolve territorialmente verso le “Pietre d’Italia” portandosi presso le diverse comunità istituzionali delle Regioni di pietra.
Il progetto “Pietre d’Italia”, che parte dalle “Pietre di Toscana” quale incipit programmatico di fondazione e di azione approvato recentemente dalla Regione Toscana-Assessorato alla Cultura, mi vede impegnato nel comunicare all’interno della geografia del Paese il progetto stesso nel tentativo di creare una rete relazionale di coinvolgimento sul tema delle Pietre dell’Identità, sfondo di riabilitazione del disciplinare storico dell’architettura di pietra unitamente alle sue latenti possibilità di aggiornamento e di attualizzazione (sia linguistica che di costruzione) per l’architettura dell’oggi.
Lo stato di avanzamento del progetto Pietre d’Italia, unitamente alla possibilità di partecipare attivamente alla sua costruzione ed evoluzione, è progressivamente documentato e discusso all’interno della piattaforma partecipata e relazionale del website architetturapietra2.sviluppo.lunet.it la cui fruizione è aperta a chiunque fosse interessato al tema e tesa alla costruzione di una Comunità di confronto, di discussione, di progetto culturale collettivo in progress.

L.P.P. Zevi o Tafuri?
A.A. Sia Zevi che Tafuri non rappresentano per me modelli riconosciuti di interpreti dell’architettura. Se vuoi miei modelli bisogna rivolgere lo sguardo all’architettura antica: Roland Martin, ma soprattutto Hans Lauter e Paul Zanker.

L.P.P. La critica oggi non è un po’ senza denti?
A.A. Relativamente alla critica di architettura – avendo già esplicitato il mio punto di vista abbastanza negativo sul suo stato di salute – vorrei evidenziare, innanzitutto, cosa mi aspetterei personalmente dal suo esercizio.
Organizzando e strutturando idee, parole, immagini verso la costruzione di un dispositivo comunicativo (sotto forma di narrazione, di racconto) la critica dovrebbe offrire un’interpretazione non banale e stereotipata dell’architettura; una rappresentazione soggettiva, indubbiamente, voce fra le tante voci, nè la più importante nella discesa verso le “viscere” dell’architettura che solo la fruizione diretta può consentire. La critica è per noi “avvicinamento” all’opera, grazie all’aiuto delle conoscenze e l’intelligenza di altri, e non sostituzione della sua fruizione, del suo godimento.
Oggi, comunque, riteniamo siano pochi i critici di talento capaci di guardare “dal di dentro” – come ci insegna Rafael Moneo – l’architettura stessa che si intende indagare, interpretare.
Frequentemente la critica contemporanea – come tutti possiamo leggerla sulle riviste d’architettura – appare esornativa, consensuale, superficiale, marginale, spesso pleonastica.
Il testo scritto – campo applicativo peculiare della critica – è (non infrequentemente) nel nostro mondo contemporaneo dell’architettura “cipria” di cosmesi e strumento “addomesticato” (dagli architetti, dagli editori, dai direttori di riviste, dai fotografi professionisti, dalle forze economiche in gioco) di costruzione di consenso. In molti casi il testo scritto appare come spazio residuale, campo tipografico “bianco-nero” col ruolo di sfondo grafico rispetto alle immagini fotografiche spettacolarizzate ed intese oramai quali figure protagoniste di una comunicazione prevalentemente iconica, priva di pensiero.
L’industria editoriale attuale tratta i lettori come passivi e distratti consumatori, come fruitori privi tempo per accorgersi e giudicare “criticamente” della “assenza della critica” a cui di associano spesso scrittura e trame narrative di bassa qualità.

L.P.P. Un libro che consiglieresti a uno studente, uno a un architetto, uno a un critico.
A.A. Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio; Peter Zumthor, Pensare architettura; Jean Starobinski, Le ragioni del testo.

L.P.P. Saranno famosi: fammi tre nomi di architetti al di fuori dell’area ferrarese.
A.A. Ritengo che oggi non ci sia più spazio per la fama ma solo per la notorietà. In questa particolare condizione di accesso alla visibilità costrutita prevalentemente attraverso i vari media c’è spazio per tanti. La società dello spettacolo – come è diventata la nostra, anche nel piccolo mondo dell’architettura – ha bisogno di figure note, di piccole stelle per riempire i diversi palinsenti comunicativi.
Aires Mateus, Matteo Thun, Italo Rota (?).

L.P.P. Saranno famosi: fammi tre nomi di architetti dell’area ferrarese.
A.A. Non intravedo, nell’ambito ferrarese, personalità di architetti che, al momento, testimonino una statura adeguata all’impresa, nè tanto meno un’opera avviata che lasci intravedere in filigrana il raggiungimento al futuro della fama. Spero però di sbagliare nella previsione e di essere contraddetto dai fatti. Ne sarei contento.

L.P.P. Il tuo artista favorito (non architetto) e il tuo critico d’arte favorito.
A.A. Giuliano Vangi, Germano Celant.

L.P.P. Mettimi in ordine di preferenza le seguenti riviste: Abitare, L’industria delle costruzioni, The Plan, Domus, Casabella, Area, d’A.
A.A. Casabella, d’A, Area, Domus, The Plan, L’industria delle costruzioni, Abitare

L.P.P. Tre parole oggi importanti.
A.A. Cultura, Creatività, Innovazione.

Luigi Prestinenza Puglisi

L’ intervista e tutte le numerose altre realizzate da Luigi Prestinenza Puglisi sono raccolte all’interno della sezione Interviews di Channelbeta e nel sito dell’Ordine di Roma

PresS/Tletter n. 24- 2006
http://www.prestinenza.it/
http://presstletter.com

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