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6 Luglio 2009

Scultura

I diversi approcci europei alla conservazione delle superfici

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“Amorino Lubomirski”, particolare del viso del giovane principe

La manutenzione e il restauro delle superfici marmoree da sempre seguono modalità che derivano dall’effetto finale che si desidera ottenere. Non si tratta di un modo di operare univoco ma, al contrario, se confrontassimo i vari interventi nel mondo, questi potrebbero sembrare fra loro anche molto differenti.
È esemplare il caso della serie dei cosiddetti amorini di Antonio Canova, quattro sculture realizzate fra il 1786 e il 1797 dal celebre artista italiano e oggi sparse in giro per l’Europa: l’Amorino Lubomirski (1786-88) conservato nel Castello Lan’cut in Polonia (Muzeum Zamek w ?a?cucie), l’Amorino Campbell (1787-89) nell’Anglesey Abbey di Cambridge, l’Amorino Latouche (1789) alla National Gallery of Ireland di Dublino e l’Amorino Yussupov (1793-97) all’Ermitage di San Pietroburgo.
Si tratta di quattro versioni dello stesso tema, replicato più volte dal Canova per esplicita richiesta dei suoi molti committenti (in origine esisteva anche un quinto amorino, che Canova chiamò Apollo, realizzato nel 1797 per il francese Juliot, purtroppo disperso e noto solo attraverso la copia di Palazzo d’Accursio a Bologna).
La prima delle quattro opere raffigura il principe Lubomirski e fu commissionata a Canova nella primavera del 1786 dalla principessa Elzbieta Czartoriska (vedova di Stanislaw Lubomirski) a Roma insieme al futuro nipote Henryk, di otto anni, in una tappa del suo forzato allontanamento dalla Polonia a causa delle forti tensioni con il nuovo re, Stanislaw Poniatowski.

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Eros copia romana musei capitolini

La statua, completata fra il 1787 e il 1788 (probabilmente modellata su un antico marmo di reimpiego appositamente acquistato dal copista e restauratore Carlo Albacini) ritrae il viso del giovane principe su di un corpo idealizzato e adulto che, con morbidi lineamenti ripropone la classica iconografia di Eros (una copia romana del II secolo d.C. da un originale attribuito a Lisippo era stata rinvenuta a Villa d’Este a Tivoli nei pressi di Roma), con arco e faretra, trasfigurando così il giovane principe, noto per i suoi bellissimi lineamenti, nell’immagine del dio dell’amore.
La fortuna della statua fu tale che, oltre alla stessa principessa Lubomirski, diversi nobiluomini europei ne commissionarono al Canova ulteriori copie.

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Amorino Lubomirski

L’artista colse l’occasione per realizzare successive varianti che via via lo portarono a perfezionare il tema.
La prima di queste fu commissionata nel 1787 dal colonnello inglese John Campbell che, visitando lo studio romano di Canova (al quale aveva già commissionato il più noto Amore e Psiche) ebbe modo di vedere l’Amorino Lubomirski in lavorazione; l’opera fu realizzata sullo stesso modello precedente sostituendo al volto del giovane principe un’immagine idealizzata, più consona alla ricerca fortemente idealizzata dell’artista. Questo secondo amorino arrivò a Londra nel 1790 per poi raggiungere la residenza Campbell di Stackpole Court nel Galles.

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Amorino Campbell

Un terzo amorino in marmo fu realizzato fra il 1789 e il 1791 per John La Touche, figlio di un ricco banchiere irlandese che, vedendo la scultura realizzata per il colonnello Campbell ottenne dal Canova l’impegno a realizzarne una replica. La quarta versione, impreziosita da eleganti ali (considerata dal Canova “ la meilleure que j’ai jamais faite dans ce genre”1) fu realizzata per il principe Nikolaj Borisovich Jussupov, noto collezionista d’arte russo. Le due opere arrivarono a San Pietroburgo nel 1802; nel 1810 furono trasferite in una tenuta a sud di Mosca per poi giungere, dopo molte traversie, solo nel 1926 al museo dell’Ermitage.

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Amorino Jussupov

Tutti gli amorini, seppur leggermente diversi, si presentavano presumibilmente all’origine con la medesima finitura superficiale. Oggi invece mostrano evidenti differenze sia a livello di cromia che di rifrazione della luce, contrariamente alle intenzioni originarie dell’artista che, per quanto documentato, voleva ottenere risultati praticamente identici; inoltre Canova realizzò le quattro opere in un arco temporale continuo e ravvicinato (poco più di un decennio), utilizzando sempre tecniche e materiali pressoché identici, tutte circostanze che non giustificano in alcun modo le forti alterazioni riscontrate. Pertanto tali variazioni sono in gran parte attribuibili alle vicissitudini subite dalle opere e soprattutto alle diverse scelte di conservazione e pulizia delle superfici marmoree operate negli ultimi due secoli.
È bene ricordare, infatti, che nel corso dell’Ottocento si delinearono in Europa almeno due posizioni teoriche antitetiche della dottrina del restauro, riconducibili una alle idee dell’architetto francese Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879), che teorizzava interventi che restituissero ai monumenti un’immagine compiuta e stilisticamente unitaria, anche se di fantasia2, e l’altra alle idee romantiche dell’intellettuale inglese John Ruskin (1819-1900), polemicamente contrario a interventi di ‘restauro’ che alterassero l’immagine autentica del monumento assunta nel tempo, che egli riteneva dovesse conservarsi in tutta la ricchezza delle sue stratificazioni e alterazioni3. Da una parte quindi una linea operativa che privilegia un aspetto ‘pulito’ e un’unità formale dell’opera, ovvero la componente estetica su quella storico-documentaria, ponendo il proprio intervento sul bene da restaurare in continuità con quello dei presunti autori originari, dall’altra una posizione estetica sensibile al fascino delle superfici corrose dal tempo ed estremamente attenta a conservare i segni originali di quanto ereditato dalla storia, osservato con rispettoso distacco.
In Italia si rafforzò invece una linea operativa definita “intermedia”, che univa all’esigenza di ristabilire l’unità formale del monumento una serie di prescrizioni, derivate da attente ricerche storico-archivistiche e mirate a rispettare l’autenticità del bene sul quale s’interveniva. Una posizione culturale tipicamente italiana dove raffinate teorie si univano, da sempre, alle esigenze pratiche di tutela e restauro di un copioso patrimonio di monumenti antichi ereditato dalla storia; questa impostazione ebbe un notevole riscontro anche in campo internazionale, come dimostrano la maggior parte degli enunciati della stessa Carta del restauro di Atene del 19314.
In analogia con queste distinte linee teoriche e con i loro attuali sviluppi si possono provare a ricondurre la variazioni riscontrate sui quattro amorini con altrettanti diversi atteggiamenti conservativi.
Osservando da vicino le quattro statue e ordinandole in un’ipotetica progressione basata sull’aspetto delle loro superfici, si passa infatti da un’immagine fortemente ‘segnata’ dell’Amorino Campbell (la statua in passato è stata pesantemente alterata da una lunga permanenza all’aperto), a quella ben conservata e con una ‘piacevole’ patina, del Principe Lubomirski come Amore (dal 1790 esposta in Polonia, nel Castello di Lan’cut, oggi Muzeum Zamek w ?a?cucie: non a caso la sola delle quattro statue rimasta sempre nella collocazione originaria, e quindi rispettando le più ovvie indicazioni di conservazione) alle superfici vistosamente bianche dell’Amorino Yussupov proveniente dall’Ermitage di San Pietroburgo, sino a quella dell’Amorino La Touche, più vicina al gusto dei collezionisti privati che prediligono immagini rimesse ‘a nuovo’ (la scultura, riscoperta negli anni Novanta da un privato dopo essere stata a lungo ritenuta perduta, è stata acquistata e poi restaurata nel 1998, sotto la direzione di Sergio Benedetti, dalla National Gallery of Ireland).

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Amorino La Touche

L’argomento è quanto mai interessante perché già con lo stesso Canova in vita vi furono molte polemiche proprio sull’uso di trattamenti segreti o particolari finiture superficiali apposte dall’artista alle sue opere per renderle più verosimili5.
La prima considerazione, quasi sconcertante nella sua ovvietà – anche se altrettanto disattesa dalle continue movimentazioni di importanti capolavori fra i maggiori musei de mondo – è che il miglior modo per conservare un’opera è quello di conservarlo nel suo ambiente originario senza alcun intervento di restauro ma solo con continue e delicate manutenzioni.
È lecito poi chiedersi, soprattutto in questo caso, dove è nota la maniacale attenzione che Canova riservava alla finitura superficiale delle proprie opere, se ogni intervento di restauro troppo aggressivo non modifichi per sempre l’aspetto ‘corretto’ delle statue.
La riflessione scaturita dall’evidenza dell’aspetto non sempre convincente dei quattro amorini del Canova può infatti estendersi facilmente all’analisi attuale dei diversi orientamenti teorici della disciplina del restauro e della conservazione in Europa, come alle diverse scelte di trattamento delle superfici esterne delle architetture.
Certamente affrontare un dibattito così complesso partendo dall’osservazione di quattro capolavori della scultura di Antonio Canova può sembrare fuori luogo perché non tutti sono concordi nell’estensione di unità di metodo fra il restauro delle opere d’arte e quello architettonico. Tuttavia è bene ricordare che i princípi, se tali sono, devono porsi al di sopra delle singole differenziazioni operative, dovendo definire i valori e le finalità alla base di ogni intervento. Non vi dovrebbe essere quindi alcun motivo per cui, una volta che ci sia accordati su cosa s’intende per tutela, conservazione e restauro, si debbano invocare metodi, ovvero princípi, diversi per le sole architetture. Ogni architetto concorderà infatti facilmente con Cesare Brandi quando afferma che “anche l’architettura, se tale, è opera d’arte”6: semmai bisognerà chiedersi cosa fare delle tante costruzioni che non raggiungono lo status di architetture. Non a caso, infatti, il trattamento delle superfici architettoniche esterne ha rappresentato negli ultimi anni un tema assai dibattuto e forse è quello che oggi meglio evidenzia le differenze fra i vari orientamenti operativi. Si passa infatti da posizioni di assoluto rispetto per i segni del tempo, visti come portatori di irrinunciabili valenze estetiche e documentarie ad altre di disinvolta rimozione delle finiture esterne, viste come super­fici di sacrificio destinate a rinno­varsi periodicamente. La riflessione scaturita dall’analisi delle quattro pregevoli sculture del Canova potrebbe così estendersi, per analogia, a molti altri casi. Sicuramente è l’occasione per evidenziare la diversità dei risultati ottenibili applicando diversi metodi che, se fossero tutti altrettanto validi, porterebbero come naturale conseguenza all’accettazione di un margine, non indifferente, di relatività per ogni intervento, mentre quasi certamente, almeno nel caso di Canova, l’artista aveva immaginato una sola facies per le sue sculture. Una soluzione possibile è quella di proporre interventi improntati a un sano equilibrio fra le istanze estetiche e quelle storico-conservative, seguendo la linea di pensiero definita come “critico-conservativa”.

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Le opere durante l’allestimento in una sala del museo della Galleria Borghese.
È evidente come la continua movimentazione di tanti capolavori sia in aperto contrasto con le ragioni della loro conservazione

Tale posizione rappresenta l’attuale evoluzione di una ricerca nata in Italia a partire dagli anni Cinquanta con il “restauro critico” e che, in una successione ininterrotta, si è sviluppata ed è proseguita in gran parte all’interno dell’Università di Roma La Sapienza, da Cesare Brandi sino a Renato Bonelli, Giuseppe Zander, Gaetano Miarelli Mariani e Giovanni Carbonara.
In ogni modo la conservazione integrale dei segni del tempo, qualora possibile in assenza di fenomeni attivi di degrado, rappresenta un’azione eticamente corretta che permette, a chi verrà dopo, di ereditare un bene integro nei propri valori materiali ed estetici sul quale studiare e operare compiutamente. Lo stesso non può dirsi, per esempio, di una qualsiasi scelta di rimozione delle patine (formalmente proibita in Italia dalla Carta del restauro del 1972) che è sempre irreversibile e potrebbe rivelarsi, in futuro, un grave errore, non solo per la perdita di importanti valori estetici (pur sempre legati a valutazioni mutevoli), ma anche di informazioni materiali attualmente non riconoscibili o adeguatamente indagabili.

Alessandro Pergoli Campanelli

Note
1 Lettera a Jussupov del 15 novembre 1794, Museo Civico di Bassano del Grappa, manoscritti, MsC, I-XI-I/221, pubblicato in G. Pavanello (a cura di) Antonio Canova: disegni e dipinti del Museo civico di Bassano del Grappa e della Gipsoteca di Possagno presentati all’Ermitage, Milano Skira, 2001, p. 42.
2 «Restaurer un édifice, ce n’est pas l’entretenir, le réparer ou le refaire, c’est le rétablir dans un état complet qui peut n’avoir jamais existé à un moment donné.», voce Restauration in Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XIe au XVIe siècle, tomo VIII, Paris B. Bance, s.d. ma 1865
3 «Do not let us talk then of restoration. The thing is a Lie from beginning to end. You may make a model of a building as you may of a corpse, and your model may have the shell of the old walls within it as your cast might have the skeleton, with what advantage I neither see nor care: but the old building is destroyed». The Complete Works of John Ruskin, George Allen, London ed. E.T. Cook and A. Wedderburn, 1903–1912, vol. 8, p. 242 (The Seven Lamps of Architecture, 1849).
4 «Conclusions générales. I. – Doctrines. Principes généraux. La Conférence a entendu l’exposé des principes généraux et des doctrines concernant la protection des Monuments. Quelle que soit la diversité des cas d’espèces dont chacun peut comporter une solution, elle a constaté que dans les divers États représentés prédomine une tendance générale à abandonner les restitutions intégrales et à en éviter les risques par l’institution d’un entretien régulier et permanent propre à assurer la conservation des édifices. Au cas où une restauration apparaît indispensable par suite de dégradations ou de destruction, elle recommande de respecter l’oeuvre historique et artistique du passé, sans proscrire le style d’aucune époque. La Conférence recommande de maintenir l’occupation des monuments qui assure la continuité de leur vie en les consacrant toutefois à des affectations qui respectent leur caractère historique ou artistique».
5 Cfr. F. Mazzocca, Roma 1804-1808: Canova e la Venere Vincitrice, in in AA. VV., Canova e la Venere vincitrice, Milano Electa, 2007, pp. 19-44.
6 “Principi per i restauro dei monumenti”, in Teoria del restauro, Torino Einaudi, 1977, p. 77.

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