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12 Ottobre 2009

Marmi Antichi

Porfido Verde Antico

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Roma, Museo Nazionale Romano. Tarsia in pietre dure e pasta vitrea con sfondo in Porfido Verde Antico.

«Non omnia autem in lapicidinis gignuntur, sed multa et sub terra sparsa, preziosissimi quidam generis, sicut Lacedemonium viride cunctisque hilarius».
(Plinio, N.H., 36, 11)

Così Plinio nella sua Naturalis Historia parlava di un materiale unico per storia ed aspetto, e famoso tanto che di lui si parlò come dello smeraldo di Laconia (come viene citato da Teofrasto), o Pietra di Laconia (Lucano), o krokeatis lithos, come viene ancor oggi denominato in Grecia. Pausania, scrittore latino, lo identificava molto probabilmente col nome di marmo Taigeto (dal nome del monte più alto presente nell’area estrattiva). O ancora, esso è conosciuto anche con i sinonimi romani di lapis lacedaemonius, di lacedaemonium (marmor) viride, nella Storia Naturale di Plinio (Plinio, N.H., 36, 55), ma anche semplicemente lacedaemonium nell’editto di Diocleziano dove viene citato come uno dei lapidei più costosi (ben 250 denari).
I romani lo chiamavano verde di Sparta, i bizantini marmo piganusio cioè di colore simile alla ruta. Forse è di età Medioevale la sua denominazione “Serpentino” poiché secondo i marmorari italiani la sua colorazione e la sua tessitura ricordava vagamente quella della pelle di alcuni serpenti. E ancora serpentino della stella, porfido verde antico, porfido verde di Grecia, poiché “Marmora non habent singularia nomina, sed vel ex coloribus qui eis insident, vel ex regionibus, in quibus nascuntur, nominantur marmor “ (Agricola, 1546).
Sicuramente questo materiale – come riporta il Lazzarini nel suo Poikiloi Lithoi, Versiculores Maculae: i Marmi colorati della Grecia Antica – colpì la fantasia di poeti e scrittori con la sua poliedricità; una pietra unica, di colore verde tendenzialmente scuro, ma anche giallo – verde, viola bruniccio. Porfirico per la presenza di individui cristallini verde chiaro o smeraldo di dimensioni variabili da millimetrici a centimetrici che talora tendono ad associarsi in glomeruli dall’aspetto stellato.
Quando pensiamo al porfido verde antico, quindi, dobbiamo rapportarci a tante pietre di aspetto differente, sfaccettature molteplici di un unico materiale, geneticamente frutto di un metamorfismo che si è sovrimposto al materiale magmatico originario, e che si è estrinsecato in maniera più o meno eterogenea ed evidente in aree differenti “sed vel ex coloribus qui eis insident, vel ex regionibus, in quibus nascuntur“che ha dato luogo ad una grande varietà di materiali tra loro simili ma mai uguali. Molte infatti sono le varietà incontrate sui mercati, tutte uniche e ben riconoscibili anche se chiaramente membri di una unica famiglia di cui mantengono un imprimatur inconfondibile: dall’olotipo, al Porfido Vitelli, a quello verde antico risato, alla varietà bruno –violacea, a quello agatato a quello bruno e a quello bruciato, pare falso storico ottenibile per riscaldamento del porfido verde.
È un materiale sicuramente affascinante e di gran carattere che grazie alla sua genesi particolare e alla non facile reperibilità non ha mai inflazionato il mercato, ammantandosi nei secoli di sempre nuovi e più profondi significati simbolici. E se inizialmente veniva usato per simboleggiare i popoli “barbari” che abitavano le aree da dove proveniva, per traslazione concettuale ha finito per rappresentare l’imperatore che li aveva sottomessi, il suo potere, la sua grandezza: quello che è accaduto per tutti i materiali lapidei di particolare bellezza cromatica provenienti dai confini dell’impero che venivano scelti a rappresentare solamente l’imperatore ed i membri della sua famiglia.

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Aspetto tal quale del materiale visto allo stereomicroscopio a 7 ingrandimenti.

Descrizione macroscopica
È un materiale cristallino costituito da una massa di fondo criptocristallina di colore verde scuro all’interno della quale sono presenti individui di colore verde chiaro da millimetrici a centimetrici. Tali individui si presentano talora in associazioni glomeroporfiriche a generare covoni a stella. Sono presenti rare venature di colore verde, serrate.
Non si notano porosità superficiali, mentre solo localmente il materiale mostra una leggera variazione cromatica che risulta essere vagamente tendente al giallastro.

Descrizione microscopica
Litotipo ipocristallino, cioè costituito sia da cristalli e sia da vetro, afanitico poiché la massa di fondo non è riconoscibile ad occhio nudo, criptocristallino, nel cui interno sono immersi fenocristalli caratterizzati da grana grossolana in quanto possono raggiungere anche dimensioni centimetriche.
I costituenti della roccia sono:
Feldspati sia presenti come fenocristalli e sia dispersi nella massa di fondo. I fenocristalli dispersi nella massa di fondo sono caratterizzati da forme euedrali con spigoli prevalentemente arrotondati o sub-arrotondati. Si presentano geminati, fratturati, localmente con aspetto cribroso, talora associati in tessiture sferulitiche e/o variolitiche, a generare covoni a stella. Essi sono particolarmente alterati e con aspetto diffusamente terroso che spesso maschera le loro tipiche geminazioni. Localmente sono caratterizzati da plaghe di clorite, ma ai forti ingrandimenti si apprezza anche la presenza di una diffusa microgranulazione, probabilmente sempre di natura cloritica, che vi conferisce una colorazione verde. Alcuni individui presentano locali strutture coronitiche che, ai massimi ingrandimenti, sembrano essere caratterizzate da strutture bollose in fase di ricristallizzazione.
Talora essi sono attraversati da fratture che non si presentano mai beanti ma che sono ricementate prevalentemente da epidoto di tipo pistacite ed in minima parte da quarzo e da microcristalli allungati, aciculari microscopicamente non definibili. I feldspati sono verosimilmente presenti anche nella massa di fondo, riconoscibili solo per il loro aspetto prismatico allungato, anche se su di essi non è effettuabile alcuna indagine microscopica. L’analisi diffrattometrica effettuata sul materiale a conferma della loro composizione, definisce come essi siano costituiti prevalentemente da plagioclasi con feldspati in netto subordine. Sia l’analisi diffrattometrica e sia la determinazione del contenuto in Anortite sui geminati Albite, conferma una composizione Albite/Oligoclasio.
Clorite: è presente sia in plaghe all’interno di amigdale nella massa di fondo, ma anche sulle superfici degli individui feldspatici, e come minute microgranulazioni sia nella massa di fondo e sia nei feldspati a cui conferiscono una tenue colorazione verdina.
Epidoto: è presente in ammassi di colore verde pistacchio (Pistacite), prevalentemente come individui di ricristallizzazione all’interno delle fratture.
Quarzo: raro, prevalentemente come prodotto di ricristallizzazione (calcedonio) di alcune bolle vetrose.
Ematite: come microgranulazione di colore rossastra presente nella massa di fondo
Diffrattometricamente si è verificata anche la presenza di tracce di Pumpellyte.
La massa di fondo, difficilmente analizzabile anche ai massimi ingrandimenti, è costituita da una diffusa granulazione di minerali opachi che presentano localmente una colorazione rossastra. Si notano inoltre individui presumibilmente feldspatici e minute granulazioni verdi probabilmente associabili a Clorite, Pistacite e Pumpellyte. Nella massa di fondo sono inoltre presenti amigdale internamente ricristallizzate e strutture bollose.

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Dall’alto: microscopio a luce polarizzata, s.s., 2I, N incrociati, feldspati dall’aspetto alterato e con spigoli sub arrotondati; microscopio a luce polarizzata, s.s., 10I, N//, feldspati immersi in una massa di fondo localmente sferulitica, non definibile microscopicamente, ed una porosità cloritizzata.

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La caratteristica della roccia lascia ipotizzare si tratti di un materiale magmatico di composizione Basaltico/Andesitico, anche se la composizione mineralogica a Pumpellyte, Clorite ed Epidoto lascia chiaramente intendere come il materiale sia sottoscorso ad un evento metamorfico. La roccia quindi può essere definita META DIABASE di composizione Basaltico-Andesitico.

Analisi difrattometrica del materiale tal quale

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Legenda (*)
••• fase prevalente (40-100%)
•• fase rilevante (10-40%)
• fase subordinata (5-10%)
tr fase in tracce (1-5 %)
— fase assente (<1 %) (?) fase probabile (*) Indicazioni puramente orientative a causa delle numerose varietà e tipologie di materiale presenti in natura.

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Roma, chiesa di San Cesareo in Palatio. Altare con grande rota in Porfido Verde Antico.

Provenienza e geologia
Il Porfido Verde Antico, anche detto Porfido Verde di Grecia, o Serpentino è, tra i marmi antichi, uno dei più famosi. Esso proviene dal Peloponneso e precisamente dal distretto di Krokea in prossimità della collina Psephì ubicata tra i villaggi di Stefanià e Krokea medesima.
L’uso della parola “proviene” è stata una scelta mirata e dovuta, in quanto il Porfido Verde Antico è uno dei pochi materiali che, come altre due tipologie di ofiti egiziane ed il Porfido Verde di Spagna (*), non viene “cavato” bensì viene “raccolto” sotto forma di piccoli blocchetti con dimensioni generalmente minori di un metro, come ci informava Pausania: “Nella Laconia v’è un villaggio chiamato Crocee presso il quale è una cava di pietra. Questa non forma una roccia continua e le pietre che se ne cavano ricordano quelle trasportate dai fiumi”.(*)
Questa condizione di affioramento è legata al fatto che il materiale si presenta come una intrusione magmatica all’interno di scisti macchiettati che appartengono ai terreni della zona di Gavrovo Tripolis, sovrascorsi su quelli ionici, frequentemente attraversati da filoni magmatici (serie vulcano sedimentaria) di chimismo prevalentemente andesitico e di età stimata attorno al tardo Permiano-rias inferiore.
Il Porfido Verde Antico, quindi, si presenta come un filone con uno sviluppo di circa 1 km inizialmente costituito da una lava porfirica nerastra che ha avuto locali condizioni di raffreddamento variabili – il che avrebbe favorito il differente sviluppo dimensionale dei fenocristalli di plagioclasio – e che ha successivamente subito una serie di locali condizioni di alterazione e metamorfismo più o meno spinte che ne hanno provocato la trasformazione in metadiabase di colore verde. Il fatto che questo metamorfismo avesse avuto effetti differenti lungo lo sviluppo del dicco già di per sé strutturalmente variabile per dimensioni ed aspetti dei fenocristalli, ne ha giustificato l’ampia varietà di tipologie rinvenibili: con massa di fondo verde scura e fenocristalli di forme differenti ( da rettangolari a quadrati ad aciculari, a stella), di colore biancastro, verde chiaro ma anche violacei; con fenocristalli centimetrici, ma anche solo millimetrici, o molto radi ed isolati (porfido verde prato o risato); con la presenza di noduletti di calcedonio, di corniole o agate (porfido agatato); o ancora la varietà pavonazza, con cristalli verde chiari in una massa di fondo violacea.
Una grandissima varietà di materiali, quindi, sempre di splendido effetto e di elevatissime caratteristiche fisico meccaniche, in quanto il metamorfismo sovrimposto ha provocato una sensibile riduzione della porosità superficiale del materiale e, forse, anche l’aumento delle sue caratteristiche meccaniche tanto che la sua resistenza alla compressione nelle facies verdi ha un range di variabilità tra 184 e 250 MPa. Un materiale di difficile lavorabilità sia per la sua durezza intrinseca, già in epoca minoica esso veniva lavorato con smeriglio proveniente dall’isola di Naxos, e sia per il fatto che è “raccolto” sempre in dimensioni ridotte (blocchetti minori di 1 metro) e quindi idoneo alla realizzazione di piccoli lavori non molto elaborati.

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Carta geotettonica della Grecia.

Storia e impieghi del materiale
Tra i “marmi antichi”, il Porfido Verde Antico è sicuramente uno di quelli di più antico uso, risalendo all’età minoica e micenea (seconda metà del II millennio a.C.), anche se non mancano tracce di impiego, seppur considerato casuale, precedenti a questo intervallo di tempo. Al periodo Miceneo ha fatto seguito una fase di declino durante l’età greca, e se non c’è evidenza del suo utilizzo nel periodo Classico nonostante fosse sicuramente conosciuto in quanto citato da Teofrasto, fu senz’altro riscoperto dai romani nella tarda età repubblicana, specialmente sotto Augusto – che si gloriò di aver trovato Roma edificata con mattoni e di averla lasciata con splendidi marmi – durante il cui regno raggiunse tutto l’impero. Molto amato e popolare nell’Italia del Rinascimento al punto di essere anche riprodotto ed imitato in pannelli e dipinti, basti citare quello di Pietro della Francesca ad Arezzo e a Borgo San Sepolcro e quello di Andrea del Castagno nel refettorio di S. Apollonia in Firenze.
La storia del Porfido Verde Antico si dipana in un arco di tempo molto lungo, al punto da giustificarne la presenza e l’uso in gran parte dell’area mediterranea, anche in regioni apparentemente defilate ed anomale rispetto le rotte del suo trasporto e della sua commercializzazione, fino ad arrivare in Britannia, nella Gallia, nella penisola Iberica, nel Nord Africa, in Asia Minore e nel Vicino Oriente. Durissimo in fase di lavorazione e di limitato approvvigionamento – come visto – esso era usato con difficoltà e quasi esclusivamente per realizzare oggetti di piccole dimensioni. Del periodo minoico e miceneo, per esempio, sono sigilli, prevalentemente recuperati a Creta e nel Peloponneso con vari soggetti animali, umani e di tauromachia; piatti; calici; piccoli vasi per lo più rituali; vaghi di collane.
Dopo la stasi nel periodo greco, il Porfido Verde Antico venne nuovamente utilizzato in epoca romana dove visse fasi alterne di fortuna: inizialmente usato con grande sfarzo come portavoce simbolico del potere imperiale assieme ad altri materiali delle regioni sottomesse più lontane, successivamente abiurato quale sfarzosa espressione, sempre assieme agli altri lapidei preziosi, di una borghesia molle e dedita al lusso sfrenato, priva di carattere. L’uso del materiale, durante tutto il periodo spaziò comunque nelle forme di decorazione di chiese e ville. Esso fu utilizzato in lastrine per la realizzazione di pavimenti in opus sectile; crustae per pareti, in tessere musive. In pratica non c’era città dell’impero dove esso non fosse presente anche se in minima quantità. Raramente esso veniva utilizzato per realizzare manufatti con valenza strutturale. I pezzi maggiori possono essere considerate le due colonne tortili alte poco più di 2 metri presenti nel battistero di San Giovanni Battista e quella, riportata dal Lazzarini, all’antiquario del Foro Romano. Oppure i rari capitelli, come i due nella chiesa di S. Saba a Roma, i due presenti nella Cappella di San Giovanni Battista del Battistero Lateranense, due nel Cortile Ottagono dei musei vaticani e due a Ravenna nella cappella “delle reliquie” di S. Apollinare Nuovo. (Lazzarini Poikiloi Lithoi….)
Ed il suo uso è proseguito anche in epoca bizantina con la realizzazione di rotae, lastre e colonnine, non si sa se di cava, di magazzini imperiali o se di riuso, mentre nel Medioevo ad un calo di utilizzo generalizzato dei materiali lapidei, si associa la costruzione di sparute opere in cui i marmi, serpentino compreso, sono presenti con un tripudio di colore di bellezza inaudita, basti pensare al Duomo di Aquisgrana e alla Basilica di San Marco in costruzione dal IX secolo.

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L’aspetto più tipico del Porfido verde antico e una varietà di porfido con fondo verde scuro e macchie verdi chiare e violette.

Nei secoli XI e XII il Porfido Verde Antico come i marmi antichi in genere, iniziano a vivere un periodo di seconda giovinezza che continuerà anche nei secoli futuri.
La sua bassa disponibilità sul mercato, imputabile più che altro ad una effettiva difficoltà di reperimento e di lavorazione oltre alla truce regola di spolia marmorei cui sono sottoscorse la maggior parte delle opere architettoniche specialmente nel Mediterraneo, ha fatto sì che queste ultime fossero molto spesso rielaborate e riadattate, magari ridotte in patere, lastre, specchiature per decori di chiese e ville.
La tipicità giacimentologica del Porfido Verde Antico, unita alla sua durezza, ne ha fortemente vincolato l’utilizzo nei secoli, ma non per questo ne ha limitato l’uso, finendo per ammantarsi come abbiamo visto, di una rilevante valenza simbolica. A ragion veduta se, come ci diceva Pausania medesimo,”Queste (pietre) sono, è vero, difficili da lavorare, ma una volta lavorate e pulite, possono fungere da degno ornamento dei templi degli dei”(*).
* Gnoli, R., 1988, Marmora Romana. 2° ed. (1° ed 1977) Roma,
pp. 142-143.

di Anna Maria Ferrari

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