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18 Gennaio 2011

Opere Murarie

La costruzione muraria. Muro/Spazio*

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Tavola illustrativa dell’opera muraria a conci squadrati dal “Trattato terico pratico dell’arte di edificare” di Giovanni Rondelet

In una fase storica remota (tanto lontana da renderne inprecisata l’esatta “profondità” temporale e le stesse coordinate geografiche) un’architettura stabile, duratura, protettiva si impone in seno all’ambiente naturale inospitale, in un certo senso “perfezionandolo” ai fini di una sua “abitabilità” in funzione di bisogni corporei e di aspirazioni simboliche intellettive dell’uomo. Protagonista di questa rivoluzione silenziosa è il muro, posto a separare uno spazio interno (reso abitabile in forma di microcosmo) da uno spazio esterno (l’ambiente sconfinato e infinito della natura); in questo processo di “delimitazione” e di “strutturazione” dell’ambiente fisico il muro si erge come recinto di separazione dei due mondi.
Non ha senso evidenziare – come numerosi autori hanno fatto – che già in origine la natura con i suoi corrugamenti geologici ha offerto configurazioni concave e convesse (monti e vallate, speroni e caverne) capaci di individuare diverse e peculiari accezioni “spaziali” rispetto al piano orizzontale della superficie terrestre. La peculiarità di uno spazio interno, architettonicamente inteso, contrapposto ad uno esterno atmosfericamente condizionato, presuppone l’esistenza di una condizione oppositiva e netta tra volume stereometrico e vuoto, molto lontana dalla topologia delle corrugazioni geologiche che mettono in campo la sola coppia oppositiva convesso/concavo.
Lo stesso vale per il muro. Benché allo stato potenziale l’immagine del “muro naturale”, quale parete rocciosa stagliata sul suolo, sia stata sempre presente nel paesaggio terrestre costituendo un evidente suggerimento (soprattutto attraverso la evidente stratificazione geologica di alcune rocce), l’azione cosciente ed intenzionalizzata alla definizione architettonica dell’archetipo murario necessiterà – da parte dell’uomo – di atti di profonda determinazione per la selezione e l’adattamento delle materie provenienti dalla natura.

«Le materie prime – precisa Dom Hans van der Laan – dalle quali si ricava uno spazio delimitato da pareti robuste sono la massa illimitata della terra e lo spazio illimitato che la sovrasta. Bisogna dunque ricavare dalla terra la massa limitata dei muri, grazie ai quali una porzione limitata di spazio sarà sottratta allo spazio naturale.
Va da sé che il muro destinato a racchiudere uno spazio non può uscire tutto d’un pezzo dalla massa terrestre. La forma chiusa, introversa dei materiali che preleviamo dalla terra – blocchi di pietra, pezzi di legno, zolle di argilla – non origina immediatamente quell’altra forma chiusa che è propria di uno spazio interno.
A questo scopo bisognerà necessariamente assemblare alcuni pezzi di questo o quel materiale. I dolmen a galleria costituiscono un esempio di questo procedimento primitivo di formazione di spazi con un numero minimo di elementi».1


Castello di Eurialo a Siracusa (Ph. Alfonso Acocella)

Il muro, dunque, nasce come “sommatoria”, come “aggregato”, di materie disponibili in natura. Se però tronchi, rami, arbusti, canne, hanno costituito risorse facilmente disponibili per il rifugio rudimentale dell’uomo dando vita alla capanna, terra e pietra – con maggiore intenzionalità ed avanzamento tecnologico – alimenteranno il concetto di muro quale struttura verticale solida e impenetrabile al vento, alla pioggia, ai rumori, agli animali, agli stessi uomini.
I materiali di cui si serve la tecnica esecutiva in pietra per dar vita ad uno spazio architettonico vengono “raccolti” sulla crosta terrestre (o “prelevati”, mediante separazione forzata dalla stratificazione geologica) per poi essere, in qualche modo, riassemblati – lungo le fasi dell’atto costruttivo – in insiemi artificiali “efficaci” sotto il profilo statico.
Le pietre, di qualsiasi genere e forma, disposte l’una accanto all’altra, l’una sopra l’altra, nei vari modi aggregativi esprimono sin dalle origini l’esistenza di una mente creativa ed ordinatrice; al pari dell’arte della tessitura, l’arte muraria attiva una sintassi combinatoria e compositiva. Così, a seconda dei materiali litoidi disponibili e delle intenzionalità architettoniche, il mondo delle origini ci restituisce dispositivi costruttivi diversificati dell’opera muraria. Tali metodiche mettono in luce l’irregolarità o la più precisa stereometria di lavorazione della pietra e della pratica muraria, l’evoluzione dei suoi contenuti tecnologici.
Fra i muri primordiali sicuramente possiamo inscrivere quelli in elementi litici “informi” ottenuti dalla raccolta o dalla produzione per distacco in cava di pietre disponibili nelle prossimità del luogo di costruzione. Si tratta in questo caso di pietre grezze, spigolose, smussate o anche levigate dagli agenti naturali: massi, scapoli, ciottoli di fiume; le forme e le dimensioni di tali elementi litici saranno sempre in funzione dei limiti imposti dalla natura, dalle condizioni petrografiche di “sfaldamento” degli strati più esterni alla crosta terrestre.
Le murature con materiale informe possono essere state all’origine del gusto dell’opera muraria a “bugnato rustico”; si tratta in questi casi di un trattamento della materia alimentato dalla forza seducente delle valenze libere della pietra – quale roccia nel suo farsi costitutivo, geologico – quasi che il disegno del muro si formi nel seno di una materia resistente e refrattaria alla forza modellante dell’ordine geometrico.
Diversa intonazione architettonica assumerà, invece, l’opera muraria poligonale con le sue pietre perfettamente “incastonate” a secco, formando un piano di facciata sostanzialmente complanare e un disegno dei giunti a “rete” che è simile, figurativamente, ai cretti della terra bruciata dal sole. Per le murature regolari serviranno, allo scopo, blocchi di pietra pareggiati su tutte le facce assecondando un disegno e un taglio prestabiliti in relazione ad un progetto della materia definito in partenza. In questa ipotesi di lavoro la pietra è prelevata dal seno stesso della terra in grandi blocchi al fine di essere, poi, suddivisa in conci; le ricomposizioni in elevazione dei muri sembrano riproporre, nei corsi sovrapposti, le stratificazioni orizzontali delle rocce sedimentarie.


Mura urbiche di Alatri (Ph. Alfonso Acocella)

L’introduzione della malta, quale contributo innovativo dell’età ellenistica offerto dai territori che si distendono intorno al golfo “greco-sannitico” di Napoli, arricchirà l’opera muraria di nuove potenzialità tecniche e temi figurativi. La malta, riguardabile quale entità materica integrativa della compagine muraria, si proporrà come maglia continua ed avvolgente entro cui saranno “imprigionate” le pietre, anche quelle più informi ed irregolari: è questa l’invenzione che porta alla nascita e al grande successo dell’opus incertum romano. Al primitivo principio di gravità, tipico delle murature arcaiche a secco, si somma quello di una resistenza per coesione; alla presenza “discontinua” delle pietre si sovrappone il disegno continuo della maglia dei giunti compartecipe figurativamente alla definizione dell’opera muraria. In questa diversa restituzione del muro – soprattutto quando lo spessore dei giunti è significativo – la pietra è sfondo, mentre la rete dei giunti avanza in primo piano.
Sulle specifiche modalità di produrre muri di pietra, ritorneremo più analiticamente nel prosieguo della trattazione; qui ci interessa restare fermi, ancora, sul tema spaziale dell’architettura muraria.
La definizione dell’atto che porta, attraverso azioni di “prelievo” o di “enucleazione” rispetto all’ambiente naturale, alla creazione dello spazio architettonico ha origine fondamentalmente dalle necessità dell’uomo a strutturare un ambito “confinato”, confortevole ed autorappresentativo della propria esistenza.

«Lo spazio naturale – afferma Dom Hans van der Laan – si dispiega sulla terra ed è interamente orientato sulla sua superficie. Il suo dato primordiale consiste nella contrapposizione fra la massa terrestre, sotto, e lo spazio aereo, sopra, che si ricongiungono sulla superficie della terra. Per leggi di gravità, tutti gli esseri materiali sono integrati in questo universo spaziale e conducono la loro esistenza “incollati”, per così dire, alla terra. Grazie alla sua intelligenza e alla sua postura eretta, l’uomo si è affrancato da questo universo: può infatti rapportare a se stesso la porzione di spazio di cui ha bisogno per muoversi e per spostarsi. Al centro dell’orientamento verticale dello spazio rispetto al suolo, egli ha coscienza di un orientamento orizzontale rispetto a se stesso, cioè di uno spazio attorno a lui, nel cuore dello spazio al di sopra della terra. I due spazi che abbiamo definito – il nostro spazio d’esperienza, caratterizzato da un orientamento orizzontale, e lo spazio naturale, a orientamento verticale – sono dunque contrapposti, ed è da questo originario antagonismo che nasce l’architettura. Essa ha inizio nel momento in cui aggiungiamo alla superficie orizzontale della terra dei muri che si innalzano in verticale».2

La ricerca di uno spazio quantitativamente sufficiente e poi, progressivamente dilatato, intenzionalizzato in funzione delle concezioni di vita e delle visioni estetiche sarà una condizione permanente della vicenda umana che non ha finito di esercitare – neppure oggigiorno – le proprie influenze sul corso dell’architettura.
Nei paesaggi rocciosi dove si sono formate caverne in epoche remote già appare una forma embrionale di spazialità “protoarchitettonica”, corrispondente alla massa litica erosa naturalmente o sottratta per azione umana di trasformazione. E’ da evidenziare, comunque, come questi ambienti ipogei, benchè assumano spesso forza e suggestione per estensione e conformazione dello scavo, modifichino appena la superficie terrestre che sta loro intorno. Tali entità spaziali si presentano come cavità che possono essere anche abitate ma mai caratterizzate da una loro autonomia rispetto al paesaggio naturale terrestre; non si tratta mai, in altri termini, di ambienti formati dall’uomo. Il vero spazio architettonico non nasce dall’incisione della crosta terrestre bensì dalla definizione ponderata, intenzionalizzata, di ambiti spaziali enucleati, ritagliati dalla più vasta e sconfinata superficie terrestre dispiegando, come mezzi di “configurazione”, muri che si ricongiungono a formare volumi stereometrici massivi, dati in continuità di materiale innalzato artificialmente sul suolo naturale.
Per introdurre il concetto di spazio autenticamente architettonico abbiamo fatto riferimento alla figura del muro e, poi, del volume stereometrico. Vorremmo, infatti, evidenziare come un solo muro libero, disposto linearmente sulla scena della superficie terrestre, pur promuovendo una separazione in qualche modo significativa, lascia intatta l’illimitata estensione naturale di partenza. Tale assetto assetto insediativo del muro produce per il suo ambito di pertinenza (ovvero per tutto il tratto lungo il quale si eleva sul suolo) unicamente una suddivisione della superficie naturale all’aperto che, risultando solo parzialmente limitata dall’elevazione della massa del muro, continua ad essere libera, indifferenziata, illimitata in tutte le altre direzioni. Ciascuno degli ambiti naturali, al di qua e al di là del muro, conserva la sua originaria condizione; la superficie terrestre estensiva, geografica, non è scomparsa ma solo interrotta. Non siamo ancora in presenza della “formalizzazione” ed “enucleazione” di uno spazio esistenziale.
Per isolare uno spazio architettonico dall’immensurabile superficie terrestre è necessario “piegare”, “curvare” il muro o quantomeno elevare una coppia parallela di pareti posizionate in modo tale che la loro topologia insediativa produca un vero “blocco” spaziale. In tutti questi casi, grazie al dispiegamento inclusivo muri avvolgenti – così come si presenteranno dalle origini della civiltà architettonica i recinti sacri egiziani, le mura urbiche delle cittadelle micenee o quelle dei tèmenos dei santuari greci – si “materializza” un intervallo di superficie terrestre interclusa fra evidenti e massive pareti verticali di pietra: è la nascita del vero spazio architettonico. Sullo scenario naturalistico di fondo si insedia la costruzione muraria volumetricamente incisiva che porta in sè – al pari di uno scrigno – la definizione dello spazio architettonico dotato di un carattere e di un valore molto particolare.


Porta urbica di Alatri (Ph. Alfonso Acocella)

Archetipi/Attualità. L’analisi delle differenze più evidenti e generali, unita ad un approfondimento delle caratteristiche che contraddistinguono la costruzione stereotomica rispetto a quella tettonica, sono stati posti alla base dello svolgimento di questo capitolo. L’avvio della trattazione ha selezionato un “fuoco” centrale all’interno della civiltà occidentale costituito da quell’orizzonte lontanissimo rappresentato dal mondo miceneo le cui fortezze e tombe stupiscono, per quella presenza stabile ed eterna, entro cui i muri di pietra hanno assunto il valore di una profonda e permanente trasformazione del suolo naturale.
L’indagine degli archetipi murari occupa una parte considerevole dell’intero capitolo sui Muri di pietra. Il senso di tale digressione non vuol essere un nostalgico tributo al passato o una “ritirata” nel mondo delle origini, lontano dai contrasti, dalle incertezze del presente, quanto piuttosto una volontà di tornare alle fonti, per fare molti passi indietro ed interrogarsi sulle cose prima di portarsi all’oggi.
La disamina delle murature degli Antichi – per quanto ci è stato concesso dai tempi di un’opera fortemente condizionata nel suo svolgimento dal suo variegato ed estensivo orizzonte tematico – pur attenta al rigore scientifico e storico, all’acquisizione delle conoscenze recenti messe a disposizione dalla ricerca archeologica, volutamente vuol essere, più che un lavoro “filologico”, un atto interpretativo, fortemente “soggettivo” e strumentale alla cultura progettuale del presente. Lo svolgimento tematico incentrato sull’Antico, particolarmente, c’interessa per l’esplicita ipotesi “operativa” sottesa.
Rispetto agli archetipi murari in pietra, perfezionati e codificati attraverso fasi storiche assai lunghe, vorremmo instaurare – come i grandi architetti d’ogni epoca ci hanno sempre insegnato – una relazione attiva, critica che, spingendosi oltre il puro atto contemplativo ed erudito, ci permetta di coglierne la loro sempre latente pregnanza concettuale e il valore di attualità. Acquista significato, in questa ipotesi di lavoro, ritrovare allora le anticipazioni fondative, interrogarsi e confrontarsi con le raffinatezze espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto, delineare le condizioni operative del presente attraverso la “profondità” di ciò che lo ha reso possibile. E’ la ricerca dei primordi, dei momenti originari di intensa creatività dove l’archetipo assume un’importanza fondamentale, disvelando l’essenza della costruzione, della forma.
In questa direzione l’Antico può diventare, concretamente, fonte di suggestione e d’insegnamento anche per il progetto contemporaneo. E’ quanto sembra indicarci Carlo Truppi:

«La concezione dell’architettura come attività progressiva, porta a ritenere, che la sostanza tematica, attraverso continue modificazioni, permane inalterata. Acquista un senso, quindi, ritrovare le anticipazioni, risalire alle derivazioni, agli strati embrionali: delineare, in sostanza, la profondità del presente, ciò che “archeologicamente” lo ha reso possibile. Essa (l’archeologia) vuole mettere in luce la regolarità della pratica costruttiva, l’evoluzione dei suoi contenuti, le modalità attraverso le quali le idee sono apparse, le procedure si sono costituite, le esperienze si riflettono in altre esperienze, le tendenze si formano, svaniscono e si formano di nuovo».3


Cimitero a Parabita di Alessandro Anselmi e Paola Chiatante (Ph. Alfonso Acocella)

Attraverso le codificazioni di ambito mediterraneo connesse alla civiltà ellenica vorremmo evidenziare la rigogliosità, la ricchezza delle forme legate alla concezione stereotomica dell’architettura occidentale dove – nei secoli – accanto alle immagini di partenza se ne sono aggiunte molte altre.
All’idea dell’archetipo murario associamo il valore sovrastorico di tema architettonico permanente, stabile, mai più cancellabile nell’esperieza costruttiva dell’uomo ma solo “rinnovabile” attraverso un incessante e sempre diverso lavoro di “riscrittura” portato sulla materia litica, sui modi di ricomposizione in corpi volumetrici posti quali generatori di “temporalizzate” concezioni spaziali.
In linea generale la costruzione muraria di pietra delle origini, differentemente dai muri di argilla o da quelli a concrezione della tradizione romana, può essere riguardata come una forma di tessitura nella quale si rende testimonianza di tutte le diverse configurazioni in cui può presentarsi la materia lapidea e di tutti i modi possibili di connessione per la realizzazione di una struttura continua nel piano verticale. Ci sarà un momento in cui le pareti di pietra s’incurveranno per diventare archi e volte, si distenderanno in “orizzontale” a formare solai e pavimenti realizzati con gli stessi materiali; ma questa è una storia esterna al capitolo sui Muri di pietra, i suoi svolgimenti saranno ripresi, comunque, nel prosieguo del nostro lavoro.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

1 Dom Hans van der Laan, Lo spazio architettonico (ed. or. L’espace architectonique, 1989) p.162, in Alberto Ferlenga e Paola Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere e gli scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 201.
2 Dom Hans van der Laan, Lo spazio architettonico (ed. or. L’espace architectonique, 1989) p.163, in Alberto Ferlenga e Paola Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere e gli scritti, Milano, Electa, 2000, pp. 201.
3 Carlo Truppi, “Il fattore tempo” p.78, in Continuità e mutamento, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 215.

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