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8 Marzo 2011

Opere Murarie

L’opera muraria quadrata*

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L’ingresso alla tholos del Tesoro di Atreo a Micene (ph. Alfonso Acocella)

Già nei muri del corridoio di ingresso (dròmos) del Tesoro di Atreo a Micene è possibile rilevare un maturo esempio di opera muraria squadrata, sia pur realizzata con blocchi non equivalenti fra di loro, disposti a corsi orizzontali di diversa altezza. Il passaggio dai micenei ai greci, dal XIII all’VIII sec. a.C., quando prende avvio il fenomeno di “litizzazione” dell’architettura ellenica, si presenta con i caratteri di un problematico salto effettuato sulle tenebre più fitte che avvolgono, a tutt’oggi, le vicende dei secoli intermedi. Al riguardo aspettiamo ancora i ritrovamenti, il difficile disvelamento interpretativo da parte del lavoro degli archeologi.
Una tendenza, comunque, è certa all’interno degli svolgimenti dell’architettura greca dell’alto arcaismo. Fra l’VIII e il VII sec. a.C. si assiste, in modo progressivo e cosciente, alla ricerca e, poi, al raggiungimento del dominio dei materiali duraturi e “nobili” (del poros e del calcare, prima, del marmo successivamente), alla definizione artistica dell’ordine architettonico, al perfezionamento e all’uso raffinato dell’opera muraria quadrata.
I debiti dei Greci continentali e di quelli della Ionia nei confronti delle civiltà del Mediterraneo orientale (della cultura minoico-micenea, da una parte, e dell’universo fenicio, siriaco ed egiziano dall’altra) sono oramai acquisiti ed unanimemente condivisi; ma ciò nulla toglie allo spirito creativo greco che – esprimendosi all’interno di una miriade di piccole città stato (le poleis) – saprà sviluppare, proprio attraverso la valorizzazione della pietra, una raffinata interpretazione della creazione architettonica tecnicamente ed artisticamente perfetta.
Lungo l’arco storico dell’alto arcaismo, pur nella peculiarità e nell’indipendenza politica di ogni polis, prende corpo la coscienza di una comune koinè che esprime appartenenza culturale e religiosa. Luoghi sacri come Delo, Delfi, Olimpia ben presto si consolidano come grandi santuari (e per certi versi “centri politici”) panellenici; in questi recinti di culto, che diventano anche sfondo, “vetrina” di autorappresentazione dello spirito greco le discipline artistiche e i programmi tecnici – sospinti ed alimentati da committenze che promuovono con profusione di risorse economiche donari, tesori, edifici sacri – vengono definiti i due grandi ordini architettonici e, insieme ad essi, la tipologia “pietrificata” del tempio periptero, la passione per il lavoro stereotomico perfetto dell’opera muraria. Tutto questo passa attraverso la ricerca artistica, in particolare attraverso la mediazione e la sperimentazione degli scultori.

«Nel campo della tecnica – afferma Roland Martin – si manifestano le prime ricerche degli artigiani, che pervengono a dominare i materiali nobili, il marmo e i calcari; diviene allora possibile ampliare e accrescere i piani e i volumi per meglio adattarli alla funzione dell’edificio. Nel corso del VII secolo il principale progresso, ricco di conseguenze, consiste nell’introduzione nei cantieri di costruzione della pietra tagliata, che si sostituisce progressivamente ai materiali “poveri”, il legno, il mattone e la terra, la mistura di argilla, sassi e paglia, il pietrisco grossolano. Le lezioni apprese dagli scultori sono venute ad alimentare le sollecitazioni provocate dalla scoperta dell’architettura dei paesi vicini, della Siria-Fenicia, dell’Egitto; a contatto con le officine di scultori si formano i tagliatori di pietre, la cui abilità è la condizione prima di tutte le grandi opere dell’architettura di greca. Ai pilastri di legno si sostituiscono i fusti slanciati delle colonne di pietra, ai rivestimenti di tavole alle estremità e agli angoli dei muri subentrano pilastri d’anta e catenature di grandi blocchi e i basamenti di pietra grezza dei muri di mattoni lasciano il posto alle grandi ortostate sormontate da assise di blocchi di poros tenero, tagliati ad imitazione dei mattoni (di cui conservano addirittura il nome); infine gli elementi di legno e di terracotta del tetto vengono sostituiti senza difficoltà e senza forzatura da elementi litici.
Così alla fine del VII secolo vediamo affermarsi le risorse d’una tecnica che libera e affranca lo spirito creatore, consentendogli di dare maggiore vitalità ai tentativi e ai brancolamenti che già si manifestano nelle conquiste importanti realizzate a partire dalla metà dell’VIII secolo in diverse parti del mondo greco, e particolarmente a Creta e nelle Cicladi».
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Capo Sunion, Tempio di Poseidone. L’opera muraria pseudoisodoma

Per molti di noi l’architettura greca è, per antonomasia, sinonimo di sublimi e perfette opere di pietra e di marmo, sospese fra età arcaica e classica, restituiteci dai manuali di storia dell’arte in bianco e nero che ci hanno formato in età giovanile o, più recentemente, da una letteratura sempre più accattivante con i suoi splendidi libri a colori diffusi da un’editoria oramai internazionalizzata.
Ma questa visione affascinante (e per certi versi stereotipata) può ritenersi raggiunta solo dopo tre secoli di storia edilizia in cui prevale il pratico, l’utilitario, il “rudimentale” lontano da ogni aspirazione di monumentalità che si concretizza solo lungo il corso del VII e del VI secolo a.C. quando l’architettura ellenica perviene a livelli di perfezione tecnica e di raffinatezza estetica grazie all’uso di elementi litici squadrati o configurati e, poi, accuratamente rifiniti in opera con resa plastica attraverso procedimenti analoghi a quelli degli scultori.
Gli edifici greci più antichi – quelli che sono chiusi nelle cronologie dei secoli che scendono dall’XI all’VIII a.C., avvolti ancora dalle “nebbie” di una conoscenza molto parziale – sono costruiti in legno, in argilla cruda battuta o configurata in mattoni parallelepipedi, con basamenti di fondazione composti da aggregati di sassi erratici o da blocchi grossolanamente squadrati.
Le indagini di scavo recenti, indirizzate ad approfondire lo studio delle stratigrafie più profonde (testimonianze materiali della fase arcaica), ci avvertono, al riguardo, di come la concezione architettonica greca delle origini non assuma a modello la tradizione muraria, volumetricamente complessa, dei palazzi e delle città micenee.
Le prime manifestazioni attestate archeologicamente sul suolo ellenico ci consegnano reperti fragili, rudimentali, legati a strutture domestiche insediate sui siti in forme isolate, autonome, enucleate l’una dall’altra. Le abitazioni di età geometrica (XI-VIII sec.a.C.) si presentano come manufatti composti da una sola stanza – prima ellittica, poi absidata o rettangolare – la cui costruzione è effettuata a mezzo di muri di mattoni crudi (o di argilla battuta) impostati su fondazioni di pietre.
Tale soluzione risulta fondamentale per l’avvio dell’opera quadrata litica a conci regolari perché ci restituisce l’origine di un tema costruttivo che, opportunamente tradotto nei nuovi paradigmi dell’opera stereometrica, rimarrà costante e sempre presente all’interno dell’evoluzione dell’architettura greca. Ci riferiamo, in particolare, allo spiccato murario della casa che risulta “bipartito”, caratterizzato da uno “zoccolo” continuo in pietra (con ruolo di fondazione e di difesa dall’umidità) che prosegue, poi, con i mattoni di argilla cruda fino al culmine superiore dove viene impostata la struttura lignea di copertura.
All’interno del processo di “litizzazione” – che investe per prima l’architettura monumentale sacra – tale concezione stratigrafica e gerarchizzata sarà trasferita soprattutto nel nucleo centrale dell’organismo religioso rappresentato dalla cella posta ad accogliere la statua della divinità. La stratificazione regolare dei mattoni in argilla cruda ha fornito indubbiamente il modello, già compiuto, traducibile in “tutta pietra” – e poi in “tutto marmo” – trasformando così il muro originario di pietrisco e di mattoni in un’opera stereotomica (dai blocchi litici regolari e perfettamente squadrati) omogenea per materiale impiegato dalle fondazioni al coronamento di copertura. Significativo è il fatto che i nuovi blocchi lapidei saranno chiamati con lo stesso nome di origine dei mattoni di argilla cruda.


L’opera muraria quadrata nei Propilei dell’Acropoli ateniese (ph. Alfonso Acocella)

La pietra tagliata e sagomata farà – parallelamente – evolvere gli esili pilastri di legno delle pensiline e dei portici delle prime cappelle sacre in robuste e possenti colonne.
Seguiremo altrove, si veda a proposito il capitolo Colonne e pilastri, i caratteri e il ruolo assunto dai supporti colonnari all’interno della formalizzazione complessiva del tempio periptero soprattutto per chiarire come l’architettura greca di pietra faccia evolvere storicamente, all’interno della sua tradizione, una duplice interpretazione all’uso dei materiali lapidei. Quella specifica e peculiare del nuovo materiale, che in questo capitolo c’interessa particolarmente, tutta inscritta nella visione stereotomica (in cui prevale il muro posto a fissare – con la sua massa – la stratificazione della materia lungo due direzioni, il tema spaziale e l’enfatizzazione volumetrica in esterno) e quella tettonica, leggibile in particolare negli svolgimenti architettonici del tempio periptero, con i suoi colonnati aperti verso lo spazio esterno dove l’uso della pietra “tradisce” la derivazione dai prototipi delle costruzioni in legno, in particolare della “capanna” con la sua tipica presa di possesso del suolo attraverso strutture puntiformi, discontinue.
Lo stesso tempio periptero si ricongiunge, in qualche modo, al nostro tema della stereometria muraria. Possiamo rivolgerci, infatti, al tempio di “pietra” nella sua forma matura e compiuta, come si definisce nel VII sec. a.C., riguardandolo attraverso il suo nucleo centrale (la cella) che si presenta, dopo aver varcato il “filtro” dei colonnati esterni, in forma di introverso volume litico posto a definire uno spazio chiuso (un vero e proprio “scrigno”) per la custodia della statua divina.
I muri delle celle dei templi nella Grecia classica saranno di poros da stuccare (la pietra scabra e porosa estratta nella regione nordoccidentale del Peloponneso), di calcare duro e compatto o, nei casi più eccelsi e rappresentativi, di marmo; i mirabili marmi “bianchi” dell’isola di Paro, il marmo del monte Pentelico, brillante al taglio, estratto a soli pochi chilometri da Atene col quale sono costruiti tutti gli edifici più importanti d’età periclea: il Partenone, i Propilei, l’Eretteo, il tempio di Zeus Olimpico. Infrequente, anzi raro, l’uso dei marmi policromi (che solo con Roma, in verità, troveranno estensivo impiego in architettura); un esempio di limitato impiego di marmo colorato – il famoso marmo nero eleusino – è, comunque, documentato nei Propilei di Mnesicle . La natura specifica del marmo (compattezza, lavorabilità e scolpibilità, lucidabilità, levità tonale ecc.) consente ai costruttori ateniesi di ottenere dispositivi murari stereotomici contrassegnati, sotto il profilo esecutivo, da “commettiture” stupefacentemente precise, superfici levigatissime e rilucenti arricchite frequentemente da inserti e modanature plastiche fra le più perfette e raffinate che l’architettura abbia mai prodotto.


Delfi. Muro con incisioni e tenoni in evidenza sulla faccia dei conci (ph. Alfonso Acocella)

L’opera quadrata – nelle sue redazioni più auliche e convenzionali che si identificano nelle apparecchiature isodoma e pseudoisodoma – diventerà lo “stereotipo” di tutto il monto greco; ancor prima che nelle mura urbiche o nell’edilizia civile, tale procedimento all’esecuzione estremamente standardizzata si definisce e si perfeziona proprio nell’architettura monumentale a carattere sacro. Questa condizione di anticipazione e di perfezionamento tecnico ed estetico, all’interno dell’architettura più rappresentativa ed influente lungo l’età arcaica e classica, qual’è quella dei templi greci, sicuramente non poco ha contribuito al suo successo e alla diffusione nelle cinte murarie, nelle sostruzioni, nell’edilizia civile soprattutto a partire dalla fase tardoclassica e, poi, ellenistica.
Nel V sec. a.C. l’opera muraria quadrata di perfette proporzioni ed esecuzione si manifesterà in tutta la sua maturità pervenendo – anche sotto il profilo quantitativo – all’apogeo della propria propagazione in tutto l’orizzonte della koinè ellenica. Impostata sull’uso di blocchi parallelepipedi accuratamente pareggiati nelle sei facce con un notevole impegno dei lapicidi dediti alla lavorazione dei conci tale tecnica offrirà – rispetto alle maniere più rudimentali di “far muro”- una maggiore semplicità costruttiva, una risposta più sicura e prevedibile rispetto alle spinte dei carichi superiori, una resa estetica – soprattutto in presenza del marmo – mai raggiunta sino ad allora.
Oltre alla perfetta impostazione di taglio – lungo il corso del V e IV sec. a.C. – ciò che oltremodo caratterizza l’opera quadrata greca, portandola al livello massimo di affinamento architettonico, è la varietà delle finiture superficiali, delle modalità di trattamento “artistico” delle facce dei conci destinate a rimanere in vista sul paramento esterno del muro. Se i blocchi nelle opere architettoniche meno celebrative sono messi in opera con la faccia grezza di cava in evidenza, nei casi più rappresentativi ricevono una spianatura più o meno accurata che va dal semplice “pareggiamento” ai più sofisticati accorgimenti di trattamento della faccia principale: bugnatura, martellinatura, lisciatura con “polimento” rilucente, spianamento dei margini, file di solchi ecc.
La ricerca, invece, di un effetto chiaroscurale, di “forza” della materia lapidea (soprattutto nelle lunghe e severe mura urbiche di età classica ed ellenistica) sarà perseguita semplicemente attraverso l’accorgimento di lasciare sporgere di poco le superfici esterne di alcuni blocchi, altre sarà alimentata, con maggiore intenzionalità estetica, mediante la lavorazione delle facce a vista dei blocchi secondo una configurazione convessa dando vita ai primi veri e propri bugnati. Altra soluzione, ampiamente documentata archeologicamente, per pervenire ad un accurato effetto plastico all’interno della compagine muraria è quella che prevede la smussatura degli spigoli dei blocchi lapidei restituendone un più morbido effetto a “cuscino”.


Pompei. Muro in tufo con spianamento dei bordi dei conci (ph. Alfonso Acocella)

L’opera quadrata nasce e si afferma, comunque, con l’aspirazione più autentica a perseguire un assetto di regolarità, di perfezione stereotomica e, conseguentemente, non ci sorprende il fatto di trovarla frequentemente restituita, soprattutto nelle architetture più rappresentative della grecità, attraverso una superficie complessivamente piana che esalta la purezza, la chiarezza dei volumi architettonici. Normalmente, in questi casi, si tende a conferire uno sviluppo omogeneo all’opera muraria appena sottolineando l’individualità di ogni singolo elemento (o di ogni ricorso di blocchi) attraverso “lisciature” o “ribassamenti” effettuati al perimetro delle facce a vista di conci in forma di nastrini.
Questo tipo di rifinitura – che può lasciare la parte centrale del concio in una condizione di morbido bugnato oppure accuratamente pareggiata con trattamento a “martello” – investe, a seconda dei casi, tutti e quattro i lati o solo due (quelli orizzontali) della faccia esterna dei conci perseguendo, in quest’ultimo caso, una figurazione orizzontale dell’opera muraria in alternativa all’altra ipotesi che, sottolineando i singoli elementi costitutivi dell’ossatura murale, ne evidenzia maggiormente la logica additiva di costruzione.
Un ulteriore modo di caratterizzare l’opera quadrata è quello di incidere la faccia a vista – al pari di come spesso avviene per i muri poligonali – con solchi verticali, organizzati in fitte file parallele.

Alfonso Acocella

Note:
*) Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Roland Martin, “Architettura” p.3, in Jean Charbonneaux, Roland Martin, Francois Villard, La grecia arcaica, Milano, Bur (ed. or. Grèce archaique, 1968), pp. 456.

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