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18 Febbraio 2013

Opere Murarie

L’opera muraria a conci squadrati in Italia*

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Cava di pietra leccese a Cursi

Dopo aver evidenziato il riemergere, nella ricerca dei grandi architetti contemporanei, di un interesse all’uso della pietra ricondotta in forme regolari ci ha animato l’idea di rintracciare e di presentare una serie di opere italiane che potessero testimoniare, attraverso esempi concreti ed attuali, la permanenza dell’identico tema nel nostro Paese.
Lasciate alle spalle le conurbazioni metropolitane, le grandi città ci siamo rivolti a ricucire i dati, le notizie provenienti da aree territoriali molto particolari, soprattutto da quelle contrassegnate da una larga disponibilità di pietre tenere, non tanto per avallare o sollecitare tendenze localistiche quanto per saggiare se l’architettura contemporanea potesse essere qui riscoperta con i caratteri di continuità rispetto ad una tradizione fortemente radicata.
L’Italia centro-meridionale, in particolare, con le sue pietre e i tufi da costruzione (quei materiali che si trovano in grandi banchi e presentano la particolarità, appena tolti dalla cava, di tagliarsi molto facilmente), insieme ad altri ambiti territoriali più circoscritti, ci ha consegnato le aree privilegiate del Paese entro cui saggiare le permanenze all’uso dell’opera quadrata.
I conci per i muri (definiti anche, a seconda degli ambiti di tradizione, toccoli, tufelli, petrelle, bolognini, cunei ecc.) sono solitamente elementi di forma parallelepipeda a dimensione obbligata: la lunghezza, in genere, è maggiore della larghezza al fine di poter ottenere una base di appoggio regolare ed estesa. Ancora oggigiorno sono presenti sul mercato edilizio di numerose regioni italiane (Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia) blocchi squadrati di “tufo” lavorati a filo di sega. È la stessa consistenza e lavorabilità di queste particolari rocce tenere ad indirizzare la produzione di cava verso blocchi pareggiati e regolari, tali da consentire una loro facile e veloce posa in opera. Per quanto attiene alle dimensioni specifiche nel corso dei secoli si è passati dai grandi blocchi lapidei ad una progressiva riduzione dimensionale dei conci fino ai formati maneggevoli legati alle potenzialità di movimentazione manuale.
I formati, chiaramente, variano in relazione alle tradizioni regionali, se non addirittura locali. Ricorrente nella tradizione del centro Italia è il formato schiacciato – in forma di “quadrello” 30 x 40 x 13 cm (più raro il 40 x 40 x 13 cm – che può dar vita a spessori murari di 30 o 40 cm. È da evidenziare, inoltre, come in questo caso la dimensione del lato minore (13 cm) facilita la combinazione rispetto ai mattoni di laterizio nella formazione di murature listate. In Puglia, soprattutto in area salentina, esistono formati di pietra leccese e tufacea di diverse dimensioni.


Cantiere del Cimitero di Taviano

In genere le facce piane dei conci squadrati, che registrano una lavorazione accurata, consentono di ottenere fra i diversi blocchi una sovrapposizione e un accostamento laterale molto efficace e preciso. L’aspetto dei muri moderni in pietra squadrata che è dato rilevare girando per il Paese varia sensibilmente in relazione ad una serie di fattori, di cui i principali appaiono: lo specifico litotipo impiegato ed il relativo trattamento superficiale delle facce dei blocchi; il tipo di apparecchiatura (giocata sul diverso rapporto dimensionale dei singoli elementi e la disposizione geometrica di concatenamento), la modalità di esecuzione dei giunti di malta.
In epoca moderna e contemporanea nella realizzazione delle murature si è fatta intervenire la malta per connettere stabilmente i diversi blocchi lapidei e per ben ripartire i carichi su tutta la sezione resistente del muro. Grazie all’interposizione della malta non risulta necessario lavorare le facce dei conci con la precisione e la cura che è stata posta dagli antichi ottenendo una notevole economia nelle fasi di lavorazione della pietra.1
Prim’ancora delle opere d’architettura si sono dimostrate interessanti e suggestive – in questo progressivo avvicinamento a realtà geografiche poco note, poco documentate dalla letteratura – le visite dei luoghi di estrazione e di lavorazione delle pietre dove abbiamo raccolto, direttamente dagli addetti all’escavazione e dai lapicidi, le informazioni utili a comprendere la vita dei materiali litici, a poterne seguire le tappe dalla cava alla fabbrica, dalla natura all’artefatto.
Ci siamo avvicinati ed abbiamo pure “curiosato” fra i semilavorati e gli abbozzi di laboratorio, dove era possibile cogliere tracce di lavoro sulla pietra più elaborate, più sofisticate; segnali superstiti dell’antica tecnica stereotomica che abbiamo immaginato potesse di nuovo alimentare, oltre che i cantieri di restauro, anche quelli della nuova costruzione. D’altronde negli stessi anni in cui abbiamo svolto la nostra esplorazione è stata costruita la fabbrica di Renzo Piano per la nuova Aula liturgica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo con i suoi grandiosi conci sagomati mostrandoci, attraverso un modello al vero, la possibilità di una nuova stagione della pietra utilizzata a fini strutturali.
Passare dalle cave ai laboratori, dai cantieri alle architetture ha significato per noi scoprire manufatti di pietra “orgogliosamente” eretti contro l’omologazione della prassi produttiva industriale. Queste architetture di pietra, scandendo il nostro viaggio come tappe territoriali, pur dando testimonianza d’incontri significativi annunciano sempre come sia il contesto, prima dell’opera, a conferire un senso, un valore all’artefatto che mai s’impone attraverso un protagonismo, un individualismo sottolineato, mostrandosi sempre attraverso i tratti familiari di materiali, di tecniche, di figure appartenenti, in qualche modo, ad una memoria diffusa, sedimentata.


Casa Baldi (1959-61) a Roma di Paolo Portoghesi

Abbiamo cercato di ricomporre una serie di architetture (spesso isolate, poste in una inspiegabile solitudine insediativa) indispensabili per sostenere un’ipotesi più generale di riabilitazione del magistero costruttivo di pietra, per farlo ritornare ad essere, in qualche modo, visibile, giudicabile ed anche utile per le nuove generazioni di progettisti. Le architetture che sottoponiamo al lettore non sono molto numerose, non rappresentano modelli o prototipi all’interno delle diverse realtà territoriali; esprimono, piuttosto, un valore di testimonianza rispetto a ciò che potrebbero ancora offrire certi materiali insieme ad un modo più comprensibile e radicato dell’architettura.
Queste opere – insieme a tutte le altre che presentiamo in questo capitolo – ci aiutano, alla fine. a prendere le distanze, con maggiore convinzione, da quella visione rinunciataria, deterministica, della cultura tecnica contemporanea nei confronti di materiali, di concezioni costruttive dotate di un legame evidente col passato, con le tradizioni dell’architettura.
Se solo con il nostro lavoro riuscissimo (avvicinando, dando visibilità ad opere poco note, spesso lontane geograficamente fra loro ma unite da una lingua comune) ad offrire un inedito punto di vista, uno scenario materico diverso rispetto al paesaggio indistinto della società globale saremmo già soddisfatti. Ci anima, in altri termini, dare testimonianza di un tentativo dove il confronto, più che essere rivolto alla ricerca dell’innovazione, tenda a gettare dei ponti rispetto all’architettura di sempre, di come è stata fino a poco tempo fa.
In opposizione alla visione omologante della produzione edilizia contemporanea, vorremmo avanzare un’ipotesi alternativa – se, ancora, è possibile, condividendola con altri – a partire dalla rivalutazione di magisteri costruttivi, di risorse, di materiali che ancora segnano paesaggisticamente il territorio del nostro Paese. È come voler ritornare a studiare una lingua lungamente parlata e, poi, bruscamente – acriticamente – abbandonata.
Riteniamo, da questa particolare prospettiva, che la concezione costruttiva plastico-muraria potrebbe ritornare ad alimentare in varie regioni del Paese una linea di ricerca, di aggiornamento, di attualizzazione, di valorizzazione – anche economica – di risorse locali. Rimane sotto gli occhi di tutti la ricchezza tipologica delle rocce che informano la geografia fisica dell’Italia, dalle Alpi alla lunga dorsale appenninica fino alle Isole maggiori.
Vorremmo sostenere all’interno di tale programma una tesi, solo apparentemente ardita, tendente a rimettere in primo piano, nel lavoro degli architetti, la muratura a conci a forte spessore.
Storicamente a fronte dell’onerosità di estrazione e di trasporto della pietra è sempre stato rilevante il suo costo di trasformazione. Per questo motivo in aree ricche di pietre “tenere”, facili da tagliarsi, si è mantenuto in vita fino ad oggi l’uso di blocchi squadrati e pezzi modellati. Si pensi soprattutto ai materiali lapidei “correnti” dell’Italia centro-meridionale che, oltre ad essere contraddistinti da parametri di economicità, posseggono considerevoli requisiti di resistenza, di compattezza, di buon aspetto. È il caso, ad esempio, di tante rocce tenere, come i tufi; per questi litotipi è la stessa consistenza e lavorabilità ad indirizzare la produzione di cava verso formati regolari e pareggiati di una certa dimensione, tali da consentire un’economica e facile posa in opera.


Complesso parrocchiale (1994-99) a Nepi di Romano Adolini

Una riabilitazione dell’opera quadrata particolarmente perseguibile in aree territoriali del nostro Paese dove abbondano pietre tenere, anche se è da tenere in considerazione come oggi le accresciute potenzialità delle macchine di taglio non pongono più problemi tecnici alla lavorazione dei litotipi, neanche di quelli più duri.
Nel presente, in base alle accresciute potenzialità dei mezzi di trasformazione, risultano di potenziale utilizzo architettonico – a fini strutturali, o quantomeno collaborativi alla formalizzazione massiva dell’involucro murario – anche i vari tipi di travertino unitamente alle pietre più dure che si offrono attraverso un’ampia distribuzione geografica nel Paese. Salvo pochi casi, ogni regione d’Italia possiede ancora integro un rilevante patrimonio di materiali lapidei da costruzione che è pensabile – a fronte delle accresciute potenzialità tecnologiche d’estrazione e lavorazione – poter rivalorizzare come nel passato.
Il presente lavoro avrà raggiunto il suo scopo se solo riuscirà a richiamare l’attenzione delle future generazioni su questo orizzonte litico spesso negletto e dimenticato dalla cultura tecnica ed architettonica, come pure dalla ricerca universitaria.

Alfonso Acocella

Note
*) Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 La finitura dei giunti avviene, in genere, dopo che nella rete murale è stata effettuata una sottrazione, a mezzo di raschietto, della malta di allettamento per almeno due centimetri di profondità. A questa fase segue l’operazione di giuntatura a “filo muro” a mezzo di malta a grana fine. Questa può impiegare nell’impasto terre naturali (o inerti) provenienti dalla frantumazione delle stesse pietre utilizzate per la costruzione del muro in modo da restituire una cromaticità finale della malta vicina alla tonalità dei conci lapidei.
Per la realizzazione dei giunti si utilizzano appositi utensili (sottoforma di spatole) che permettono di comprimere la malta all’interno degli interstizi, lisciandola convenientemente, soprattutto quando le fughe sono larghe. Chiaramente l’assetto finale dei giunti può risultare più o meno enfatizzato sotto il profilo morfologico assumendo diverse configurazioni superficiali: a scivolo, concavo, sottosquadro, a fettuccia (realizzata, quest’ultima con un cordoncino di malta, di forma appiattita o bombata in rilievo. Si possono sottolineare, inoltre, i giunti attraverso una stilatura rientrante, ovvero incidendo la malta fresca con un ferro appuntito guidato da un lungo regolo di legno.

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