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Stratigrafia parietale (I parte)*

(I^ Parte)


Tempio di Giove Anxur a Terracina. (foto di A. Acocella)
fg76
Alle origini del rivestimento
Le soluzioni di configurazione parietale in ambito ellenistico muovono dalla tradizione aulica dell’architettura in marmo della Grecia classica. Nelle celle dei templi le colonne delle navate laterali vennero, in numerosi casi, posizionate vicino alle pareti e, successivamente, negli svolgimenti ellenistici, addossate ad esse in forma di semicolonne (tholos di Delfi, Basse, Tegea) producendo, sia pur in forma ancora embrionale, il trasferimento di un tema architettonico-costruttivo in un motivo architettonico-decorativo.
Tale processo è altresì presente nello sviluppo e nella diffusione della casa ellenistica a peristilio nel bacino del Mediterraneo (comprese le colonie e i centri urbani italici influenzati dalla civiltà magnogreca) che ha spesso utilizzato, quale fondale rispetto ad un raffinato arredo amovibile, superfici “involucranti” accuratamente rifinite e decorate in forma di pareti cieche trattate ad intonaco colorato che andranno a fondersi, nel quadro spaziale complessivo, con l’effetto di preziosi mobili, lampade in bronzo, tappeti.
Il tema di traduzione su superficie piana di un modellato plastico è perseguito – anzi, più frequentemente sperimentato – attraverso il procedimento di intonacatura della superficie muraria o della stuccatura a rilievo, come è ancora perfettamente leggibile nel grande peristilio della Casa del Fauno o nella Basilica di Pompei (entrambi gli edifici sono del II sec. a. C.) riguardabili come peculiari testimonianze del processo di ellenizzazione in ambito italico da cui non sarà esente la stessa civiltà romana.
La massima espressione di una tecnica muraria di tipo stratigrafico, con un’esaltazione dei valori di superficie e di rivestimento parietale, è legata proprio all’esperienza romana sulla quale hanno dato contributi interpretativi fondamentali (fra Otto e Novecento) personaggi di primo piano della cultura artistica ed architettonica europea quali Semper, Bötticher, Riegl, Choisy, Meurer, Bettini ed altri.
Nell’architettura romana, salvo alcuni temi particolari (quali gli edifici di culto più importanti, i “templi”), non esiste una corrispondenza diretta, esplicita, fra la struttura portante e la risoluzione della facies parietale, interna o esterna, a vista.
La verità strutturale per cui un edificio romano sta in piedi, assolvendo al suo ruolo statico, è molto diversa da quella che, in genere, appare a prima vista; dando questa particolare risoluzione al problema della costruzione gli architetti romani si allontanarono da quanto aveva espresso sin allora l’architettura greca.
La maggiore carica innovativa della tecnica costruttiva ellenistica fa sì che – sia pur a fronte dell’abitudine prevalente alla struttura muraria massiva ed omogenea secondo la “maniera greca” (questo anche quando si immetterà, per la prima volta nella tradizione occidentale, la tecnica delle murature in blocchi di argilla cotta come le realizzazione di Velia del III sec. a C. ci testimoniano) – già prima delle esperienze romane la concezione di una costruzione muraria “composita”, “stratigrafica”, con uso contestuale di materiali diversi, trovi i suoi primi, anche se limitati, esperimenti applicativi.
Ed è la stessa Velia, città di fondazione da parte dei Focei, ad esempio, ad offrirci temi di costruzione muraria sviluppati in tale direzione.
In ambito romano, già a partire dalla fase tardo repubblicana (II-I sec. a. C.), il muro – ovvero quella parte della costruzione compresa fra il piano di spiccato e il piano di appoggio delle coperture – è storicamente riguardabile come struttura composita e specializzata fatta di molteplici materiali, di strati organizzati e gerarchizzati dall’interno verso l’esterno.
In genere è dato un nucleo murario portante centrale (esso stesso, nella sua sezione, “composito”) a cui si sovrappone una serie di strati che “ingrossano” lo spessore dell’ossatura muraria (sia verso l’interno che l’esterno) utilizzando cocciopesti, intonaci, intonaci colorati con pitture ad affresco, encausti, stucchi bianchi e colorati, rivestimenti lapidei a spessore e, in epoca imperiale, anche lastre sottili di marmi policromi, mosaici in pasta vitrea, laterizi a vista.
L’ossatura muraria, in forma di solido resistente e di sostegno alla copertura, è – in genere – obliterata; gli strati superficiali di rivestimento in continuità materica e coloristica, delimitano e definiscono lo spazio “azzerando” ogni evocazione di resistenza della struttura portante. La struttura dell’ossatura risulta, generalmente, tripartita (ovvero composta da tre strati materici): due cortine all’esterno e un getto interno, di più rilevante spessore, in calcestruzzo.
Nella composizione del nucleo centrale (in cui già dal II sec. a. C. fa da protagonista l’opus caementicium, un materiale destinato a rivoluzionare i sistemi di costruzione dell’architettura antica e a promuovere una grandiosa “architettura spaziale”) un ruolo essenziale è svolto dalla malta di calce (materia) quale elemento aggregante rispetto ai “rottami” (caementa) di pietra o di laterizio cotto che costituiscono l’ossatura del calcestruzzo stesso allettati a mano nella malta molto fluida da maestranze non necessariamente qualificate come quelle preposte alla realizzazione dei paramenti murari.
Privo di cortine, l’opus caementicium è comunemente impiegato unicamente in fondazione; in spiccato, invece, è utilizzato sempre come nucleo interno, in abbinamento con casseforme-cortine molte variegate per tipologia, morfologia e dimensioni dei materiali costitutivi. Tali cortine risultano generalmente formate da elementi – sia nel caso di utilizzo di pietre naturali che di prodotti “artificiali”, quali i laterizi cotti – con una morfologica a “cuneo” (rigorosa nell’opus reticolatum e nell’opus testaceum, meno definita ma sempre presente nell’opus incertum e nell’opus vittatum). Questa particolare morfologia a “bietta” è finalizzata, nella specifica costruzione composita romana, ad ottenere – verso l’interno – la compenetrazione degli eterogenei materiali costitutivi (nucleo-paramenti) e – verso l’esterno – una parete completamente pareggiata e complanare idonea ad accogliere qualsiasi altro strato di rivestimento superficiale da lasciare a vista.
Fra le fonti antiche Vitruvio, nel secondo capitolo del De Architectura precisa con una certa cura le caratteristiche delle diverse tipologie di opus murari romani esplicitando la peculiarità della nuova concezione costruttiva romana a base essenzialmente concretizia e confrontandola con la tradizione greca e il tardo aggiornamento ellenistico che introduce – come già accennato – murature miste ad emplecton preludio degli sviluppi romani delle murature composite.
Rimane, a questo punto, da esplicitare il motivo per cui i romani dissimularono a tal punto l’ossatura muraria portante (rifiutando ogni apporto estetico dell’elemento strutturale), eleggendo, invece, il rivestimento a vero protagonista dell’immagine architettonica.
Siamo di fronte, indubbiamente, alla maturazione di una sensibilità alla forma architettonica diversa da quella derivante dalla concezione trilitica greca o peristilia ellenistica. L’obliterazione delle membrature costruttive si accompagna, in genere, nell’architettura romana, a un occultamento del loro peso, della loro tettonicità, della loro resistenza, sfruttando soluzioni di “ricoprimento” delle murature verticali e delle ampie ed avvolgenti volte, veri dispositivi innovativi della concezione architettonica romana.
“Nell’arte romana – evidenzia con grande acutezza Sergio Bettini – le volte e le cupole hanno la funzione figurativa fondamentale di raccogliere e unificare gli spazi, di ottenere quell’effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui vengono subordinate anche tutte le forme particolari. È questa totalità spaziale, appunto che determina il significato propriamente architettonico degli edifici romani, e costituisce il punto di partenza per l’esatta comprensione delle forme particolari che in essa vengono assorbite; non sono le forme singolarmente prese o un accostamento di forme singole. Già dagli inizi, dalla stessa adozione della tecnica cementizia, l’accento dell’architettura romana è posta, non sull’elemento, alla maniera greca, ma sul legamento, cioè sull’unità complessiva della fabbrica.” (1)
In fondo le “finte architetture” da rivestimento (con pitture dipinte, con placcature marmoree, con mosaici, con stucchi, ecc.) perseguono la medesima finalità; gettare sulla parete una “veste” che trasmetta una qualità estetica superiore a quanto sarebbe stato possibile per altra via.


Villa Adriana a Tivoli. Cortile dei pilastri dorici. (foto di A. Acocella)

Gli esempi dell’illusionismo strutturale rintracciabili nell’architettura romana sono molteplici (anche in complessi dove sicuramente non esistevano limitazioni economiche o di competenze tecniche); fra tutti possiamo citare il caso particolarmente significativo delle piattabande in mattoni foderate con lastre di marmo a simulazione di grandi architravi monolitici sia nel Cortile dei pilastri dorici che nel Teatro marittimo della “Villa tiburtina” a Tivoli dell’imperatore Adriano.

di Alfonso Acocella

* Il presente post riedita il saggio pubblicato su Materia (n. 31, 2000, pp. 10-21). In occasione della editazione on line dell’articolo (programmato in tre puntate) l’Autore ha inteso reinterpretare ed ampliare – in relazione alle minori limitazioni di spazio offerte dal web – l’apparato delle illustrazioni.
(1) Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Edizioni Dedalo, 1978.

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