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Stratigrafia parietale (II parte)*

(II parte)


Pantheon. Rivestimento a spessore del pronao. (foto. A. Acocella)
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Rivestimenti lapidei a spessore. Placcature marmoree sottili
Già nel periodo tardorepubblicano il rivestimento lapideo assume una duplice specializzazione.
La prima è destinata prevalentemente agli esterni, con rivestimenti a grande spessore i cui elementi spesso partecipano alla stessa funzione statica dell’ossatura muraria. Monumenti come il mausoleo di Cecilia Metella lungo la via Appia a Roma non sono altro che enormi nuclei in calcestruzzo con paramenti in blocchi di pietra squadrata autoportanti lasciati a vista (opus quadratum), di cui alcuni – disposti come diatoni, perpendicolarmente allo sviluppo murario – risultano annegati nello spessore della massa concretizia.
L’idea di riservare al paramento murario di facciata i blocchi squadrati di grosso spessore anticipa, cronologicamente, la seconda soluzione di rivestimento – tipicamente romana – ottenuta impiegando lastre marmoree sottili policrome (l’opus sectile) posate sulle pareti murarie portanti tramite grappe di bronzo e malta di calce.
Quest’ultima tecnica – sviluppata dai romani a partire dall’età augustea quando, grazie all’avanzamento dei processi di lavorazione, fu possibile tagliare i blocchi di marmo in lastre di spessore anche al di sotto del centimetro – sarà indirizzata verso un uso sofisticato e opulento dei litoidi più rari e pregiati prediligendo l’accostamento contrastato di marmi e calcari policromi che affluivano, via mare, da tutti i territori dell’Impero.
I pannelli di marmo – le crustae – non si presentano mai in grandi dimensioni risultando (quando vengono concepiti secondo “disegni geometrici”) dalla combinazione di elementi lineari (cornici, fasce) che perimetrano, al contorno, specchiature in cui si inscrivono, a contrasto, lastre più piccole di forma regolare: quadrati, rettangoli, triangoli, losanghe, cerchi. Più raramente le incrostazioni si accompagnavano ad elementi “in solido” (valga per tutti la spettacolare partitura architettonica in marmo numidico del Pantheon adrianeo) sottoforma di membrature legate alla concezione dell’ordine (lesene e colonne con capitelli, cornici, trabeazioni ecc.).
È soprattutto con l’epoca di Augusto che si gettano le basi per gli svolgimenti successivi Ai marmi bianchi, in omaggio alla tradizione greca, è affidato in genere il compito di suggellare, entro la compagine urbana, l’immagine “composta”, “equilibrata”, “neoatticista”, dei grandi monumenti augustei; basti qui citare la Basilica Emilia, il Tempio Sosiano e, soprattutto, il Foro di Augusto; monumenti, questi, i cui resti sono ancora oggi visibili all’interno della stratificazione archeologica secolare di Roma.
Negli interni degli edifici pubblici prese avvio, invece, la tendenza alla enfatizzazione spettacolare ed illusionistica dello spazio affidata, sempre più, a rivestimenti parietali e pavimentali in opus sectile che utilizzavano la forza policromatica, la suggestione delle venature e delle “macchie” dei marmi, riprendendo e trasferendo la sfarzosità e il lusso abitativo (già acquisito dai ceti aristocratici e mercantili romani nelle domus e nelle ville suburbane di villeggiatura tardorepubblicane) all’architettura di interni dei grandi edifici imperiali destinati a funzioni politiche, religiose, cerimoniali. Nei pochi casi superstiti – dal Pantheon al Basilica di Giunio Basso, dall’Aula fuori Porta Marina a Ostia alla tardoromana S. Vitale di Ravenna – il rivestimento policromo (in opus sectile geometrico o figurale) si estende verso l’alto foderando grandi campiture delle superfici murarie.
Nelle lussuose abitazioni – legate prevalentemente alle ville imperiali, a quelle della classe senatoriale, degli influenti liberti o dei ricchi mercanti – il rivestimento non ricoprirà quasi mai intere pareti, foderando invece un’altezza relativamente modesta (poco più di un metro) oltre la quale, dopo una eventuale sottolineatura plastica di una cornice in marmo in aggetto, prosegue una finitura ad intonaco affrescato, ad encausto, stucco.
A fianco degli schemi geometrici di rivestimento marmoreo vennero ben presto introdotti soluzioni di opus sectile più elaborate che svilupparono, all’interno delle composizioni generali, temi figurativi a soggetto mitologico, eroico ecc. grazie all’utilizzo della tecnica dell’intarsio, proponendo una visione dell’incrostazione marmorea come “pittura di pietra”, in similitudine a quanto già promosso dalla più antica tradizione del rivestimento a mosaico.
Quest’ultimo tipo di rivestimento marmoreo sembra essere stato introdotto, secondo Plinio, durante il regno di Claudio (41-54 d.C.) registrando lungo il principato di Nerone una ulteriore accentuazione di sperimentazione ed enfatizzazione decorativa. Un successivo sviluppo si registrerà soprattutto nel tardo Impero con gli esempi più cospicui, e giustamente famosi, quali la Basilica di Giunio Basso e l’Aula cristiana fuori porta Marina a Ostia.

Mosaico parietale
La tecnica del rivestimento a mosaico, per secoli limitata a redazioni pavimentali ottenute con piccole tessere (opus tessellatum) o piccolissimi frammenti (opus vermiculatum) di pietra o di marmi colorati, fa registrare ad una certa data un allargamento applicativo che progressivamente investirà sempre più estese superfici comprese quelle parietali e voltate.
I primi esempi di rivestimento musivo parietale si legano soprattutto alla definizione di piccoli manufatti riguardabili attraverso la categoria degli “arredi architettonici” fissi (quali possono essere considerati le fontane, i ninfei da giardino con nicchie ed esedre) godibili, ancor oggigiorno, nelle loro condizioni di integrità figurativa ed esecutiva nei numerosi triclini estivi delle residenze di Stabia, di Ercolano (casa di Nettuno ed Anfitrite), Pompei (casa della Fontana piccola, casa della Fontana grande, casa di Marco Lucrezio).
Meno frequenti, ma pur sempre documentati, i supporti architettonici verticali rivestiti con mosaici (come nel caso della Domus con le colonne a mosaico portate alla luce negli scavi di Pompei ed attualmente esposte nel Museo archeologico di Napoli).
Benchè spetti alla civiltà bizantina il raggiungimento dei risultati più spettacolari nell’uso di mosaici dai toni dorati e cangianti su estesissime superfici murali, il primato dell’invenzione e dello sviluppo di tale tecnica di rivestimento va riconosciuto ai romani che inizialmente la veicolarono su limitate superfici parietali, poi su quelle voltate di edifici importanti.
Basti citare la volta delle terme di Baia, il criptoportico della Villa Adriana a Tivoli, la volta con eleganti decorazioni a viticci della Rotonda dei Sette sapienti ad Ostia; ed ancora la cupola del Tempio di Minerva medica a Roma (il cui rivestimento musivo è andato purtroppo perduto), la volta anulare a botte dell’ambulacro ancora perfettamente visibile della chiesa di Santa Costanza, sempre a Roma, infine il capolavoro dell’architettura tardoromana qual’è il S.Vitale a Ravenna.
Un passo famoso di Plinio (Storia naturale, XXXVI, 189) dà una cronologia abbastanza precisa all’estensione applicativa del mosaico dall’ambito pavimentale a quello delle superfici voltate legandola all’età giulio-claudia; nello stesso passo Plinio evidenzia – inoltre – i nuovi materiali adottati per tali redazioni musive: le tessere vitree, eventualmente smaltate, al fine di conferire un più sgargiante colorismo parietale.


Chiesa di San Vitale a Ravenna. (foto. A. Acocella)

I mosaici a tessere vitree (più leggere, e quindi particolarmente idonee ad essere fissate sull’intradosso delle volte senza appesantirne la struttura) svolgono una funzione analoga a quella delle decorazioni a pitture, a stucchi, a incrostazione marmorea concorrendo alla definizione degli ambienti interni e all’avvolgimento unitario dello spazio attraverso un gusto parietale del rivestimento fortemente coloristico, proteso nell’architettura romana – in antitesi alla sintassi figurativa greca – alla smaterializzazione dei partiti tettonici in vista di risolvere tutto in termini di superficie e di colore come precisato da Sergio Bettini:
“Ma è la decorazione a mosaico in se stessa, con la sua particolare sintassi anche figurativa, che non può originarsi dalla tradizione greca, anzi presuppone, necessariamente, un completo rivolgimento di tutta la concezione greca dello spazio e della forma. Poichè la decorazione musiva, s’è visto, si determina come ultimo e più maturo e coerente risultato della trasformazione delle pareti in superfici di valore cromatico, e tale ultima trasformazione può avvenire soltanto nell’ambito d’una tradizione architettonica, la quale si sia distaccata dal sistema trilitico greco, o da quello peristilio ellenistico, ed abbia trasferito, appunto, sulla parete integralmente chiusa anche in alto per mezzo della cupola, l’intera responsabilità della definizione degli spazi interni. Cioè della tradizione romana. La quale, quando riduce codesta parete, per rispondere al nuovo senso dello spazio, ad un illusivo diaframma di colore, non soltanto è condotta a ricercare nelle rivestiture marmoree e nelle decorazioni a mosaico un più ricco effetto cromatico, ma poichè tale ricerca risponde al bisogno di dare alla parete un significato di spazialità immateriale, porta necessariamente a ridurre le stesse “figure” a superfici cromatiche senza spessore (…).
È dunque un nuovo linguaggio, antitetico a quello plastico dell’antica Grecia, che si viene maturando a Roma, ed è questo, che viene accolto da Bisanzio.” (2)
Alfonso Acocella

*Il presente post riedita il saggio pubblicato su Materia (n. 31, 2000, pp. 10-21). In occasione della editazione on line dell’articolo (programmato in tre puntate) l’Autore ha inteso reinterpretare ed ampliare – in relazione alle minori limitazioni di spazio offerte dal web – l’apparato delle illustrazioni.
(2) Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Edizioni Dedalo, 1978.

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