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9 Settembre 2005

Ri_editazioni

Ogni opera è in cammino verso l’Opera


Leibnizkolonnaden a Berlino di Hans Kollhoff. Dettaglio. (foto di A. Acocella)

L’Oeuvre
L’Opera, come sappiamo, non è mai nata d’un colpo solo. Ha sempre richiesto un grande impegno a chi ha aspirato alla corona degli immortali. Intere vite sono state immolate a tale fine.
Per mettersi in cammino, per realizzare, per conseguire l’Opera è stato indispensabile rapportarsi con determinazione alle cose del mondo attraverso i processi cognitivi (osservazione, ritenzione, scarto), esplicitando capacità nello scegliere una direzione e nel delimitare un campo di applicazione; dimostrare talento – alla fine – nel conferire valore, coerenza, durata al proprio operare. Si è trattato sempre di scelte al plurale, confrontandosi con le concezioni di tempo, di spazio, di materia, di forma, di linguaggio.
In un’epoca in cui si è quasi del tutto perso il significato durevole attribuito all’Opera può apparire anacronistico ritornare, oggi, ad evocare tale concetto che – certo – non gode più di considerazione e buona stampa.
“La fama – afferma Zygmunt Bauman – era un tempo la strada maestra verso l’immortalità individuale. Al suo posto è subentrata la notorietà, che è un oggetto di consumo anzichè un’oeuvre, cioè qualcosa che si produce con laboriosità. Come tutti gli oggetti di consumo in una socieà di consumatori, la notorietà deve fornire un godimento pronto e rapidamente esauribile. Una società di consumatori è anche una civiltà di parti di ricambio e articoli usa e getta in cui l’arte della riparazione e della conservazione è ridondante ed è stata pressochè dimenticata. La notorietà è usa e getta tanto quanto istantanea (…)
Nella corsa alla notorietà, coloro che un tempo erano i soli a potersi disputare la fama – scienziati, artisti, inventori, capi politici – non hanno nessun vantaggio nei confronti delle stelle della canzone e del cinema, degli autori di romanzi dozzinali, delle modelle, dei calciatori, dei serial killer o dei pluridivorziati. Ciò si ripercuote sul modo in cui la loro attività è percepita ed essi stessi la percepiscono: nella ripartizione del prestigio accademico o artistico, le apparizioni momentanee ma frequenti negli spettacoli televisivi che fanno audience contano più di anni di ricerche lontano dai riflettori o di assidua sperimentazione. Tutti gli oggetti di consumo devono passare il test di Gorge Steiner di massimo impatto e obsolescenza istantanea.” ( 2)
Se questa è l’epoca, posta a rappresentare le tendenze generali della società, sappiamo che gli uomini hanno sempre goduto della libertà di accessi individuali, di interpretazioni “altre” rispetto all’ultima attualità, risalendo la corrente invisibile del tempo, valutando la propagazione degli eventi e le reciproche correlazioni, assegnando posizioni alle cose, eleggendo i valori utili alla propria esistenza e al proprio lavoro.
Hans Kollhoff appartiene sicuramente a questa schiera molto ristretta di individui che ricercano criticamente un presente e un’Opera in linea con le personali convinzioni.
Tutto il suo lavoro architettonico sembra improntato alla mitigazione della biografia artistica – con una netta presa di distanza dalla ricerca di una notorietà tanto a buon mercato quanto stravagante ed effimera – e all’affermazione di un’Opera inscritta nel solco dei valori essenziali e saldi della tradizione urbana europea ritenuta ancora vitale per il presente. Un’Opera che scandaglia forme e soluzioni congrue alle esigenze e alle aspettative del fruitore (l’uomo) riguardato quale entità biologica, sensitiva, ma anche sociale; un’Opera che valuta il progetto non come una “creazione” ma come un incessante “trovare” e “ritrovare” nelle pieghe di quanto consolidato.

Classi formali di tradizione
Risalire la corrente del tempo, farsi strada nella lunga avventura anteriore, cercare di ricongiungerla ad un presente frammentato e disperso è il programma architettonico implicito di Hans Kollhoff. All’interprete – a noi, in quest’occasione – spetta la selezione di un approccio per esercitare l’indagine.
In questa operazione l’individualità delle opere viene volutamente allontanata – e di questo, in qualche modo, il lettore ne tenga conto – per far avanzare in primo piano elementi, intonazioni, tratti salienti. La lettura delle singole opere è presupposta ma viene mantenuta a distanza; all’interprete interessa estrarre idee, concetti quadro dell’Opera.
Apriamo allora la questione.
Deve essere ben chiaro il programma di riferimento di Kollhoff: riconoscere il valore ed assimilare i caratteri insediativi (continui, compatti, fortemente urbani) dell’architettura delle città europee. Solo a partire da tale assunto si spiega il particolare impegno profuso dall’architetto tedesco nel raggiungimento di un’intensità e di un radicamento al suolo dei suoi edifici attraverso forme icastiche.
Le forme, come sappiamo, però non sono che una visione interiore, una speculazione dello spirito, finchè non vivono attraverso la materia.
Il legame tra materie e forme è strettissimo al punto da spingerci – da molto tempo – a parlare di Stili Tecnologici con i loro elementi costituitivi che hanno valore di indice, di elenco e, talora, di potente strumento di progetto.
L’architetto tedesco mostra interesse per le “classi formali tradizionali” dello Stile litico-laterizio che si impegna a trasporre, ridurre, comporre all’interno della propria Opera; “classi” connesse alle idee fondative di muro, parete, arco, colonna, basamento, coronamento, angolo che nascono dal linguaggio consolidato e dalle potenzialità d’impiego della pietra, del marmo, del clinker, della terracotta fatti avanzare – in qualità di materiali elettivi dell’architettura, “preziosi” e durevoli – in primo piano nelle sue opere.
Con tutto quel repertorio fatto di traduzioni, riduzioni, duplicazioni, derivazioni, a Kollhoff, più che le soluzioni autoriali, individuali delle opere, interessano in modo evidente le lunghe sequenze temporali e le classi convenzionali degli elementi di costruzione dell’immagine architettonica. Successioni ordinate di forme – in larga parte inattive da tempo – a cui si offre occasione di sopravvivenza, se non di “rinascenza”.
Ecco allora che volumi murari, teorie di archi, tessiture parietali, ritmi colonnari si ripresentano nuovamente all’architettura come “sequenze attive”, suscettibili di prosecuzioni, di aggiornamenti, di vita.
L’affinamento delle forme convenzionali (testimonianze del banco di prova dell’esperienza) è quanto trasmesso a Kollhoff da Adolf Loos, maestro severo, il cui monito mette in guardia rispetto alla mania di originalità degli architetti, indicando i confini dei propri compiti, il realismo del mestiere e l’incoraggiamento al lavoro anche quando – apparentemente – inattuale:
“Non temere di essere giudicato non moderno. Le modifiche al modo di costruire tradizionale sono consentite soltanto se rappresentano un miglioramento in caso contrario attieniti alla tradizione. Perchè la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina a fianco.” (3)
Per Hans Kollhoff, si badi bene, non si tratta tanto di riproporre un radicalismo o un arcaismo costruttivo lontano dalle condizioni materiali dell’industria contemporanea, quanto di trasformare a proprio vantaggio i metodi attuali della produzione edilizia (standardizzazione dimensionale, prefabbricazione di componenti, razionalizzazione di cantiere), “ibridandoli” con metodiche e materiali tradizionali all’interno di un calibrassimo progetto tecnico, affinchè la qualità dell’architettura del presente ritorni ad essere confrontabile con quella del passato. Alla fine vediamo agire nell’Opera di Kollhoff “murature stratigrafiche” in cui i mattoni di clinker, le lastre di terracotta (alla maniera di Schinkel) rieditano soluzioni d’impiego del materiale in forma di rivestimento a spessore, o sottile; modi d’uso archetipici e lungamente caratteristici dell’architettura storica occidentale in laterizio.
L’Opera, così predisposta, attende il Tempo.

Alfonso Acocella

(1) ll presente post riedita l’editoriale apparso sul numero monografico dedicato ad Hans Kollhoff di “Costruire in laterizio” n. 106, 2005. Il titolo è una citazione tratta da: Jean Starobinski, “La perfezione, il cammino, l’origine” (1997) ora in Le ragioni del testo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p.109.
(2) Zygmunt Bauman, “C’è vita dopo l’immortalità?” in La società individualizzata, Bologna, Il Mulino, 2002 (ed. or. The Individualized Society, 2001), p. 307.
(3) Adolf Loos, “Regole per chi costruisce in montagna” (1913) ora in Parole nel vuoto, Milano, Adelphi Edizioni, 1972, p.272.

Costruire in laterizio n. 106, 2005
(Vai a Il laterizio)

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