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6 Luglio 2011

Opere Murarie

I muri a bugnato greci e romani*

English version


Velia. Mura del quartiere meridionale con bugne rustiche (ph. Alfonso Acocella)

I Romani apprenderanno la tecnica dell’anatirosi (anathyrosis) attraverso gli edifici greci delle colonie della Sicilia e dell’Italia meridionale. Il procedimento – com’è noto – prevede, ai fini di far combaciare esattamente le facce laterali dei blocchi posati a secco, solamente una fascia perimetrale piana larga dai 4 agli 8 cm; la restante superficie interna è, invece, scavata in profondità e lasciata più grezza in modo tale che il contatto dei conci avvenisse solo al perimetro dove è effettuata una lavorazione perfettamente complanare a mezzo di gradina. Tale modalità di lavorazione viene trasferita dai Greci, con opportuni adattamenti, anche sulla faccia a vista dei conci ai fini di una particolare resa architettonica; si intuisce allora perché anche il nastro che, a volte, limita al contorno le facce dei blocchi dell’alzato murario venga indicato con il termine di anatirosi.
L’anathyrosis lasciata a vista produce, frontalmente lungo i bordi, una riquadratura chiusa e regolare di dimensioni correlate alla mole dei conci; la superficie interclusa, delimitata dal nastro esterno, può essere lasciata a risalto o in piano ma sempre lavorata in differenziazione di trattamento rispetto al bordo perimetrale.
Alla prima tipologia di bugnato appartiene l’alzato murario delle ben conservate mura greche dell’Acropoli di Heraclea Minoa in Sicilia, dove sono leggibili, ancora oggi, le tracce lasciate dalle asce impiegate per la rifinitura esterna in leggero aggetto. Bozze molto particolari, emergenti dal piano dell’anatirosi, sono altresì rinvenibili sempre in Sicilia in altri edifici greci o solo influenzati dal processo di ellenizzazione. Si ritrovano a Selinunte in alcune case lungo il cardo massimo o a Segesta nel crepidoma del famoso tempio dorico; in entrambi i casi i conci sono dotati di “protuberanze” a forma troncopiramidale in guisa di “bugnato ridotto”(visto che occupano una parte minima della fronte dei conci). Bugnati con conci trattati a superfici piane con anatirosi si ritrovano in numerosi ed importanti monumenti greci come il Tempio dei misteri ad Eleusi (470-460 a.C.), il muro antico degli altari di Delfi, le mura del Pireo, il Theseion, la tholos di Epidauro, il ginnasio di Pergamo.
Se si esclude il Castello di Eurialo a Siracusa, i cui bastioni sono trattati a bugne rustiche, per rintracciare forme greche di “restituzione plastica” dei paramenti murari bisogna rivolgersi a costruzioni dell’Attica o a siti greci del Mediterraneo orientale.
Molte città, lungo il IV sec. a. C., si dotano di cinte difensive per proteggere l’Attica da eventuali attacchi esterni (ma anche per le persistenti lotte interne tra le stesse città greche) che, per quantità e distribuzione topografica, formano nell’insieme un potente ed efficiente sistema di fortezze.


Castello di Eurialo a Siracusa. Paramento murario a bugne rustiche (ph. Alfonso Acocella)

Con il nascere della tecnica poliorcetica e il perfezionamento delle macchine di assedio la stessa architettura militare subisce notevoli innovazioni, perfezionamenti, adattamenti. Ma il tono architettonico profuso in molti di questi interventi ci restituisce la cinta muraria attraverso un’immagine che va ben oltre la sua specifica funzione difensiva, proponendosi frequentemente come monumento cittadino imponente; tale fenomeno, già presente nel V e nel IV sec. a.C. (si pensi al caso di Atene), trova un’accelerazione lungo il III sec. a.C. quando sulle città ellenistiche grava una latente e più preoccupante minaccia di aggressione. Dopo la tradizione delle mura di mattoni crudi su basamenti di pietra (un bell’esempio ci è stato restituito proprio sul suolo italico dalla città di Gela in Sicilia) compaiono le fortificazioni interamente in pietra.

«Ciò – come evidenzia Hans Lauter – non rispondeva tanto a una necessità pratica, perché infatti le mura in pietra non sono più resistenti di quelli in mattoni crudi, le cui eccellenti caratteristiche sono rilevate ancora da Filone; ma si trattava anche e soprattutto di rappresentatività, dal momento che mura urbiche in pietra suscitano un’impressione di robustezza ed imponenza. (…) Davanti ad uno spettacolo del genere appare chiaro che la cinta muraria ha un significato genuinamente urbanistico: essa è allo stesso tempo la buccia e la pelle robusta del corpo cittadino che grazie ad essa ottiene limiti e forma invece di perdersi in maniera amorfa. Già Aristotele si era reso conto di questo ed aveva definito la corona di mura come protezione e insieme come Kosmos, come ornamento della città. Nell’ellenismo, il carattere decorativo delle fortificazioni viene preso assolutamente alla lettera, ed esse vengono ornate architettonicamente».1

Fra le fortificazioni del IV sec. a.C. ve ne sono alcune che si ricollegano, in particolare, al tema del bugnato. Ben conservata è la roccaforte di Egostena – da considerarsi come uno dei maggiori baluardi difensivi dell’Attica sull’estremità del golfo di Corinto – dotata di una cinta quadrangolare posta a scoraggiare, con la sua imponenza, i nemici provenienti dal mare. Lungo il percorso delle mura svettano torri quadrate e, fra queste, soprattutto il “mastio” più alto, conservatosi quasi intatto fino ad oggi; qui un accurato taglio dei conci, lavorati con bugne grezze fortemente chiaroscurali, testimonia l’attenzione prestata al trattamento espressivo dell’opera muraria.
Un’altra fortezza importante è Eleutere posta a sbarrare, sulla direttrice che collega la Boezia all’Attica, la strada verso Tebe. Si presenta con cortine di conci lapidei coronate da camminamenti di ronda muniti di parapetto e di feritoie per gli arcieri; ad intervallare le mura sono insediati bastioni più alti in forma di torri quadrate. La lunga cinta fortificata, con sezioni murarie di 2,60 m ed un infittimento di bastioni sul lato nord, è tutta realizzata con grandi conci bugnati che ostentano una lavorazione rustica, estesa a tutta la faccia a vista con la sola eccezione degli angoli delle torri dove viene marcato lo spigolo mediante un trattamento complanare e piatto delle superfici.
Le stesse porte di molte cinte urbiche di questo periodo acquistano il valore emblematico di “sigilli”, di architetture monumentali che segnano, vistosamente, il punto d’ingresso alle città con torri di fiancheggiamento in posizione simmetrica rispetto all’ingresso. Risaltano, in particolare, le porte con corti retrostanti (a piante rotonde, semicircolari o a forma di parabola) così come attestato dalle cinte murarie di Messene, Filippi, Perge o, sul suolo italico, di Siracusa, di Tindari, di Selinunte, di Velia.
Se la Porta sacra di Mileto presenta, fra i suoi elementi caratteristici, pilastri ed archivolti, nel caso della porta occidentale di Abdera si adotta, invece, un motivo monumentale a bugnato con diamanti piramidali. Una delle porte più imponenti e raffinata resta, comunque, la porta di Arcadia a Messene inserita nel circuito difensivo (lungo nove chilometri, con mura di cortina spesse due metri, alte sei, intervallate da torri aggettanti e svettanti fino nove metri) realizzato su iniziativa del generale tebano Epaminonda intorno al 370 a.C. per contrastare la potenza di Sparta.
La porta di Arcadia, protetta da due grandi bastioni quadrati, organizza il passaggio fortificato intorno ad una corte circolare interna di venti metri di diametro; chiunque fosse riuscito ad abbattere la prima porta si sarebbe trovato in uno spazio senza uscita circondato da un muro in forma di “barbacane”, facile bersaglio dei difensori schierati in alto. La costruzione della porta impiega poderosi architravi monolitici e, per le assise murarie formate da ricorsi regolari, conci trattati a bugne rustiche con incisioni superficiali.
Ci siamo soffermati sull’architettura militare di tradizione ellenica poiché rappresenta, in genere, un capitolo trascurato della tecnica costruttiva greca; per i numerosi avanzamenti e approfondimenti legati all’arte muraria in pietra (e al tema del bugnato, in particolare) tale settore applicativo è fra i più stimolanti e meno conosciuti per cui sarebbe auspicabile promuovere ulteriori ricerche.


Sezioni tipo di bugnati romani: semplice; a baule; piana con anathyrosis; piana con spigoli smussati; rustica con recesso; rustica con recesso e smussatura

Il lavoro a rilievo del paramento a vista di tradizione greca procede prevalentemente per superfici finemente lavorate ma sostanzialmente complanari, spesso appena evidenziate da commessure rientranti fra concio e concio che rimangono visibili, ma sostanzialmente delicate. Le influenze di tale esecuzione “morbida” del paramento non tarderanno a farsi sentire all’interno della stessa architettura romana.
Sulla scia dell’assimilazione al lavoro stereotomico greco può leggersi (soprattutto in avvio della fase imperiale quando si diffonde il gusto neoatticista e l’uso del marmo nelle numerose ed imponenti opere monumentali promosse da Augusto) lo sviluppo del paramento murario mediante la tecnica del bugnato a superficie piana con anatyrosis. Tale trattamento della superficie a vista, applicato frequentemente in soluzioni con apparecchiatura a blocchi isodomi, restituisce la maniera più rappresentativa e convenzionale per risolvere architettonicamente (o solo per decorare, mediante rivestimenti a spessore) gli alzati murari di templi e di edifici collettivi di grande importanza.
Spesso, all’interno della concezione costruttiva romana di età imperiale fortemente stratigrafica ed illusiva, tali bugnature “in piano” non corrisponderanno alla vera struttura portante visto che l’opera quadrata in pietra sarà frequentemente sostituita dall’opera a concrezione (l’opus caementicium) rappresentandone solo una simulazione attraverso lastre marmorea di placcaggio (sia pur di considerevole spessore) o addirittura di masselli litici intimamente partecipi del dispositivo murario come nel famoso e bell’esempio in blocchi isodomi di travertino della Tomba di Cecilia Metella lungo la via Appia a Roma.
Ulteriori ed importanti monumenti romani in cui è riscontrabile l’adozione del bugnato a superficie piana sono il Tempio rotondo del Foro Boario, il Tempio del Divo Giulio nel Foro Romano, il Tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare, il Tempio di Marte nel Foro di Augusto, il Tempio di Vesta nel Foro Romano; fuori della capitale: i Templi di Roma e Augusto sia a Pola che a Terracina.
Altre testimonianze archeologiche ci hanno restituito bugnati a superficie piana con cigli ad unghiatura (o ad angoli ottusi) che conferiscono alle bugne la configurazione di un tronco di piramide schiacciato; è il caso del Foro di Augusto, del Tempio dei Castori, delle porte di Sepino, delle mura di Viterbo.
La più caratteristica forma di bugnato romano è legata, comunque, al trattamento rustico, in evidente aggetto, esteso a tutta la superficie della faccia a vista del concio; si tratta della restituzione più grezza dell’epidermide muraria, senza alcuna speciale lavorazione della pietra, lasciandola pressappoco così come proviene dalla cava. In questa condizione di grossolanità si ravvisa lo stato primitivo della materia il cui mantenimento, in origine, può essere stata giustificata ai fini di un risparmio di lavoro dei lapicidi.
E’ evidente, comunque, come ben presto in questa “rustica rozzezza” si intraveda una potenzialità architettonica (se non addirittura una “vena artistica”) molto importante all’interno del progetto delle opere di pietra che dall’antichità romana salirà fino all’epoca moderna, capace di articolare e di arricchire gli impaginati murari di nuove interpretazioni formali.
Una variante del bugnato con superficie rustica estesa a tutta la faccia del concio è quella contrassegnata dai margini perimetrali pareggiati ed arretrati (o refessi). A favore di questa soluzione più elaborata sotto il profilo architettonico, che – senza rinunciare all’effetto di massa rude – mette in campo parte dello spirito geometrico e regolare tipico dell’opera quadrata, gioca anche un fattore di natura pratica in quanto, grazie all’allineamento dei refessi, risulta più facile il posizionamento, in “appiombo”, dei conci nelle fasi di esecuzione dell’alzato murario.
Un ulteriore variante di trattamento rustico è quello a superfici bombate (a baule o a cuscino) che assume, nella faccia a vista, un modellato a “segmento di cilindro”; applicato prevalentemente in presenza di blocchi disposti per lungo, assegna un carattere più “morbido” all’opera muraria bugnata. E’ il caso dei Castra Albani dove un robusto muro di grandi massi di peperino lavorato a baule recinge l’accampamento fondato da Settimio Severo.


Porta Maggiore a Roma (ph. Alfonso Acocella)

Nel loro insieme questi tipi di bugnati romani – energici, robusti, grezzi – frequentemente si ricollegano a settori applicativi particolari quali terrazze sostruttive, podi di templi, ponti ed acquedotti.
I decenni centrali del I sec. d.C. rappresentano una fase storica di grande crescita urbana e di fasto architettonico per Roma assurta, oramai, al ruolo di centro del potere rispetto a tutto il Mediterraneo. Tale periodo corrisponde alla fase storica in cui, particolarmente, si diffonde nell’architettura imperiale l’uso del travertino di Tivoli su tutte le altre pietre utilizzate nei programmi architettonici della capitale e dell’ampio territorio a questa strettamente collegato.
Nelle facciate delle grandi costruzioni in opera quadrata realizzate da Tiberio e, poi, in quelle eseguite da Caligola, Claudio, Nerone vengono impiegati frequentemente massi di travertino, lavorati a bugnato rustico, il cui uso non si limita alle sole superfici basamentali o sostruttive delle murature, ma viene esteso ai conci degli archi, ai rocchi delle colonne e dei pilastri, alle parti di coronamento degli edifici (spesso anche attraverso singole bugne sporgenti lasciate appositamente “informi” entro cortine con blocchi accuratamente pareggiati).
Sotto l’impero di Claudio, in particolare, il trattamento a bugnato dell’opera quadrata assurge a tema architettonico peculiare (se non addirittura ad una vera e propria moda) con una ricorrenza che, sotto il profilo della diffusione, non ha confronti nell’antichità. Fra tutte le architetture di età claudiana, indubbiamente, la Porta Maggiore in Roma rappresenta l’esempio più imponente e scenografico ancora oggi perfettamente visibile ed ammirabile.
Inscritta all’interno delle grandi opere di infrastrutturazione idraulica avviate da Caligola e proseguite da Claudio – legate ai programmi di adduzione in Roma delle acque Claudia e dell’Aniene Nuovo a mezzo di complessi sistemi di trafori e ponti ad arcate – la Porta Maggiore è scenograficamente impostata come un doppio arco monumentale che sovrappassa le vie Prenestina e Labicana. A differenza delle opere di infrastrutturazione territoriale degli acquedotti – risolti nei tratti esterni della campagna romana con la tecnica dell’ opus testaceum (conglomerato cementizio intercluso in cortine di mattoni di laterizio cotto) – Porta Maggiore, inserita all’interno del circuito urbano della capitale, viene realizzata mediante la più antica ed aulica tecnica dell’opera quadrata in blocchi di travertino con la parte inferiore trattata a forte bugnato assurgendo a manufatto altamente rappresentativo e celebrativo. Affidiamo la sua descrizione a Giuseppe Lugli:

«Claudio immaginò i due fornici come una mostra monumentale del suo acquedotto e, in luogo di dividere le due strade all’esterno di esso, preferì dividerle all’interno per facilitarne il traffico e aumentare la grandiosità della porta. I due fornici hanno la stessa luce di m. 6,35 e la stessa altezza di m. 14, ma quello di sinistra, sotto il quale passava la Via Prenestina, è leggermente obliquo, data la direzione della via stessa. Il loro livello originale era a circa due metri al di sopra di quello della fine della Repubblica, rappresentato dal basamento del Sepolcro di Eurisace.
L’alto attico è diviso in tre fasce longitudinali, di cui la più alta corrisponde allo speco dell’Aniene Nuovo e porta l’iscrizione originale di Claudio, la mediana allo speco dell’Acqua Claudia e reca l’iscrizione del primo restauro di Vespasiano, e l’inferiore riveste il basamento di ambedue e conserva il ricordo del secondo restauro di Tito.
L’architettura della porta è molto singolare: gli stipiti degli archi e delle finestre, le colonne che sorreggono i timpani delle nicchie e gli archivolti dei fornici sono lasciati grezzi o con blocchi appena sbozzati, come provenivano dalla cava, mentre i capitelli delle colonne e gli architravi sono lavorati a regola d’arte.
Per spiegare una tale anomalia costruttiva si possono fare due ipotesi: prima, che, rimasto il lavoro incompiuto per un caso qualsiasi, piacesse di lasciarlo in questo modo; seconda, che una tale singolarità fosse voluta dall’architetto stesso per dare un maggiore risalto alla massa con una superficie rustica e disuguale.
In favore di questa seconda ipotesi sta il fatto che una tale architettura si ritrova altre volte durante il regno di Claudio, e cioè nel suo Tempio sul Celio e in un grande Portico al limite delle fosse tiberine, presso Fiumicino».
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Dettaglio di arco rustico della Porta Maggiore a Roma (ph. Alfonso Acocella)

Sotto il principato di Claudio l’opera muraria rustica assurge a scelta deliberata, di tendenza. L’architettura a bugnato, da questa particolare prospettiva, può essere letta come la maniera artistica per conferire alle proprie realizzazioni un carattere di originalità, di enfasi e fissare, alla fine, un nuovo stile. Sono note le forti ambizioni culturali di Claudio che si atteggia, più in generale, a riformatore delle Istituzioni e della lingua romana; non meraviglia, in tale contesto, l’impulso direttamente impresso ad un “genere particolare” di architettura finora rimasto ai margini dei grandi programmi rappresentativi ed indirizzato a diventare il “nuovo ordine claudiano”.
Riguardando tale fenomeno in una prospettiva storica tale tendenza non sembra produrre, comunque, una duratura influenza; il fenomeno della “fortuna” del bugnato è cronologicamente perimetrabile all’interno dell’architettura romana fra due date: 41-68 d.C.; ovvero dall’inizio dell’impero di Claudio alla fine di quello di Nerone entro il cui ancora si avverte l’eco di tale tendenza impressa dal suo predecessore. Fra le varie architetture monumentali di età claudiana è possibile includere una serie significativa di opere in cui è presente l’uso del bugnato rustico.
E’ il caso del portico terminale delle fosse tiberine nel porto di Ostia. Qui le colonne, ordite come una teoria ciclopica di supporti verticali posti a scandire il grande spazio aperto sul mare strutturato in forma di T, presentano tamburi rigonfi appena sbozzati con i soli bordi delle superfici di contatto portati a filo; in contrasto, invece, sia le basi che i capitelli sono accuratamente rifiniti con lavoro a “compimento” in analogia a quanto si è già evidenziato per gli ordini addossati della Porta Maggiore.
Le terrazze con arcate sostruttive nel grande quadriportico che contorna il Tempio di Claudio Deificato sul Celio offrono un altro esempio famoso di uso della pietra messa in opera “brutalmente”. L’impiego del bugnato è indirizzato – ancora una volta – alla “fusione” di pietra accuratamente lavorata e pietra grezza con fini deliberatamente estetici; le testate dei pilastri e le armille degli archi ostentano grosse bugne rustiche con pronunciata sporgenza del concio di chiave mentre, in contrasto, sono restituite le lesene superiori e le fasce dell’architrave, caratterizzate da un lavoro finitissimo. Vi è chi, anche in questo caso, avanza il dubbio se si tratti di un’autentica architettura composita o tale reperto sia solo lo stadio incompiuto del lavoro dei lapicidi arrestatosi per motivi a noi non noti; un confronto con le altre opere di età claudiana già citate fa propendere il nostro giudizio per una scelta deliberata e cosciente animata dal gusto architettonico personale dell’imperatore.
Nell’insieme questo gruppo di testimonianze singolari, segnato da un manierismo costruttivo fortemente esaltato dall’uso del bugnato rustico, riveste certamente sul piano quantitativo una posizione marginale all’interno dei programmi realizzativi romani soprattutto se confrontato rispetto ai modi più convenzionali di concepire e rifinire l’opera quadrata. Non v’è dubbio, comunque, che tali intonazioni dell’opera muraria, in cui per la prima volta il bugnato entra a pieno titolo nell’architettura rappresentativa della capitale, saranno destinate ad avere una grande influenza nel futuro per quella legge – mai scritta, ma verificabile – legata alla “vita delle forme”. A queste opere si ispireranno gli architetti rinascimentali (Michelozzo, Serlio, Bernini, Giulio Romano, Palladio ecc.); ad esse si lega la ripresa e la fortuna, in epoca moderna, dell’opera muraria a bugnato.

Davide Turrini

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.

1 Hans Lauter, “Fortificazioni della città” p.71, in L’architettura dell’Ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, 1986), pp. 296.
2 Giuseppe Lugli, “La Porta Labicana o Praenestina (Maggiore)” p.58, in Itinerario di Roma antica, Roma, Bardi Editore, 1975, pp. 635.

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