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18 Maggio 2012

Opere di Architettura

Lapis Niger
XII Biennale architettura di Venezia
Attilio Stocchi


L’installazione, dall’esterno, in Biennale.

Proprio a Venezia nel 1552 due pescatori rimasero quasi due ore immersi nel mare Adriatico, chiusi in una campana di tre metri di diametro, davanti agli occhi del Doge, dei senatori e della folla stupita. La campana subacquea, adeguatamente ingegnerizzata e perfezionata nel tempo sino a divenire l’habitat subacqueo, costituisce ancora oggi l’approdo sicuro ed asciutto per il sommozzatore di profondità, una sorta di speciale luogo di riparo e di quiete negli abissi, entro una bolla d’aria attorniata dalla vita dei mari o degli oceani. Per pura associazione visiva, entrare, obbligatoriamente dal basso, nell’installazione di Attilio Stocchi alla dodicesima Biennale di Architettura del 2010, è come per il sommozzatore guadagnare il riparo della campana subacquea nella profondità degli abissi, e lì farsi raggiungere dai suoni dell’oceano, e percepire i movimenti delle maree.
In Italia 2050, terza sezione del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia curato da Luca Molinari, quattordici architetti hanno tradotto in installazioni altrettanti testi e temi scaturiti da un’iniziativa della rivista Wired, quali visioni sul futuro prossimo. All’interno di uno spazio esteso in cui è stata lasciata libertà di movimento, quattordici scale conducono all’anno 2050, ad un’ampia piattaforma sopraelevata ospitante le altrettante installazioni. Qui il progetto di Stocchi è fra gli unici a confrontarsi direttamente con il tema disciplinare fondamentale dello spazio architettonico.
La dodicesima Biennale di Architettura di Venezia è diretta da Kazuyo Sejima e porta il titolo People meet in architecture. Come riportano i testi istituzionali dell’evento “Il titolo suggerisce che l’architettura ha il compito di creare degli spazi reali che agevolano la comunicazione tra gli individui, in un’epoca in cui le tecnologie più avanzate sostituiscono il dialogo diretto tra le persone. Per superare la condizione di isolamento e restituire un nuovo senso alle comunità, l’architetto piuttosto che concentrarsi su grandi utopie, dovrà cercare di realizzare visioni funzionali al presente.”
Il lavoro di Attilio Stocchi per l’occasione, intitolato Attesa, indaga anche questo tema; un suggestivo contributo testuale di Achille Stocchi e la relazione di progetto dell’architetto lo svelano in via definitiva:

“Le particelle si incontrano nella materia vuota.
La vita (suoni e luce) si incontrano – solo – nel vuoto (nella solitudine?) di uno spazio.
Questi per me, sono i riflessi dal futuro.

Entrare soli in uno spazio. Che implode e sembra assorbire tutto:
quasi camera anecoica, spugna – che tutto imbeve – .
Buco nero? Forse meglio: lo spazio pieno come una nebbia, che esiste, e si può compenetrare.
Subito qui l’architettura fa incontrare: ma solo se stessi.
Vuoto, dove la vita – la possibilità di movimento – sono questi coni:
l’istantanea del loro posizionamento, qui in questo momento.
Si odono delle voci e si è colpiti da frecce di luce e da immagini di altri mondi.
Questi cunei non spengono solamente – le voci, il desiderio di uscire – :
una piccola fessura/apertura li trasforma
in grandi orecchie, pronte ad accogliere le voci dallo spazio intorno,
e in grandi occhi pronti a dialogare con le altre vite che qui circondano.
Vuoto come luogo di incontro e interazione.
I suoni e le voci collidono all’interno del visitatore che li registra.
Non tanto, non solo visione di altri oggetti,
ma probabilità/desiderio di interagire con l’intorno: questo è l’oggetto della mia riflessione.
Questa è la fisica, lo spazio fisico di questo vuoto.
Riflessioni dal cosmo,
che è quella calma – geometria d’ordine – che cerchiamo dentro di noi.


Alcuni elaborati di dettaglio costruttivo.

In attesa c’è la speranza che qualcosa accada.
Ma in attesa c’è anche il tentare (l’esperimento, la fatica del progetto)
e c’è, soprattutto, la tensione e il tendine, che poi è questo tentativo di tirare i fili, i legamenti della luce.
In Attesa c’è poi il lavoro “Attese” di Fontana, squarci di luce.
In Attesa c’è anche un dialogo con il luogo, la Tesa delle Vergini: dove, come in altri parti dell’Arsenale si tendevano le vele o si tiravano le corde (corderie).
Sempre tensione.”

I coni molteplici alle pareti dell’installazione di Stocchi paiono altrettanti tentativi di carpire l’attenzione della vita che scorre e passa d’intorno, per attrarla a sé, come corni inglesi montaliani in attesa che il vento soffi e li faccia suonare.
Proprio per via dei coni, visivamente l’interno dell’installazione di Stocchi pure ricorda, amplificate, le superfici acustiche delle sale di registrazione. Le due cose, insieme, ritornano nel cinema, ove il giudice di Tre colori: film rosso, dopo una vita trascorsa a giudicare il bene ed il male negli altri, si isola confinandosi nella propria casa ad ascoltare di nascosto le conversazioni dei vicini. Le vite degli altri ha poi portato alla notorietà le vicende del funzionario della Stasi, Wiesler, il cui tempo trascorre al chiuso, in solitario, nell’ascolto della vita privata di due artisti. In entrambi i casi sarà in effetti la vita esterna a farsi breccia nelle vite solitarie dei protagonisti, e nelle mura in cui sono rinchiusi, fino a redimerli, trasformando il voyeurismo in uno sguardo d’amore sul mondo.
Per mere ragioni di carattere pratico l’installazione è realizzata in legno verniciato e prende il nome di Attesa. In origine era interamente lapidea e titolata Lapis Niger.
Quella del lapis niger a Roma è un’area di forma pressoché quadrata entro il foro, realizzata con marmo in colore scuro di cava greca, divisa dal restante pavimento in travertino con una serie di lastre di marmo bianco, poste in verticale a delineare una sorta di balaustra. Al di sotto della specifica area definita dal particolare marmo pavimentale, resti sempre lapidei e scultorei hanno fatto parlare di un pulpito, di una tomba e di un tempio. Fra queste spoglie è ritrovata la stele lapidea recante una tra le più antiche iscrizioni in lingua latina, del VI sec. a.C., con caratteri ancora simili a quelli greci ed andamento bustrofedico. I lapis niger sono pure pietre dedicate al culto della dea Cibele, prima greca e poi romana, dea della fecondità della terra, madre degli dei e degli uomini.
All’interno dell’unico spazio della Biennale in cui la piattaforma eleva le quattordici visioni del futuro prossimo, l’installazione di Stocchi è punto privilegiato, in questo caso per un approfondimento sui temi dell’architettura e dell’incontro, così come il lapis niger all’interno del foro.
Come nel lapis niger esiste una realtà al di sopra ed una al di sotto della superficie.
Così come l’iscrizione bustrofedica per la scrittura, l’architettura offre infine una chiave di lettura ai comportamenti umani ed al trascorrere del tempo, affinché lo spazio architettonico continui a costituire fecondo punto d’incontro fra gli uomini, e fra gli uomini e la propria spiritualità.


Uno schizzo studia l’interazione fra la variabilità dei percorsi esterni e l’installazione.

[photogallery]lapis_niger_album[/photogallery]

di Alberto Ferraresi

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