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17 Luglio 2008

Eventi

Doppia conferenza a cava Cengelle per l’ottantesimo di Casabella

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Cava Cengelle pronta ad accogliere il pubblico (foto Mauro Albano)

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Lezioni di vita, non solo di architettura, per la serata in cava Cengelle. L’occasione – un compleanno importante – è memorabile: Casabella, la storica rivista italiana, fedele strumento di generazioni di professionisti sempre aggiornata, attenta al cambiamento e coerente al proprio stile, ha scelto di inaugurare gli eventi legati al proprio ottantesimo anno di vita, in un contesto singolare reso possibile grazie ad una formidabile accoglienza. Per riflettere sul significato oggi di un organo di formazione e conoscenza degli architetti che si avvale della parola scritta e del media cartaceo per far circolare le idee e orientare le decisioni della collettività, l’appuntamento a Pederiva di Grancona del giungo scorso, è stato di risonanza internazionale. Molti gli attori della serata: due relatori di indubbia notorietà, interlocutori, come precisa Francesco Dal Co presentando la serata, “scelti in modo non ingenuo” – gli attesissimi Álvaro Siza e Eduardo Souto de Moura; due ospiti altrettanto speciali in Barbara e Deborah Morseletto agli onori di casa; un significativo e partecipe sostenitore in Marmomacc; più di settecento spettatori ad assistere all’evento, prova ancora dell’attenzione del paese per l’architettura di qualità; infine la scenografia avvolgente dal fondale giallocrema della galleria scavata nella montagna di Pietra di Vicenza di proprietà del Laboratorio vicentino. Cava Cengelle si estende in profondità, la temperatura è fresca e costante, il segno dell’opera dell’uomo sulla natura imponente: presso l’estremità interna del lungo percorso ad attendere gli astanti due grandi schermi di proiezione e la cattedra dei relatori. All’interno della “caverna”, come in una metafora fattasi realtà, assistere allo spettacolo è un po’ una discesa alle radici – alle origini della “materia prima” dell’architettura rappresentata dalla Pietra gialla di Vicenza ed insieme alle radici dell’architettura dei due maestri portoghesi.
Il tema della serata è apparentemente semplice: “che cosa ho imparato dall’architettura”. A dare avvio all’incontro è per primo Eduardo Souto de Moura – il secondo discepolo, lungo la linea rossa che salda l’esperienza di Távora, il maestro costantemente ricordato nel corso della serata, passando poi proprio per Álvaro Siza.
Scendono le luci e non è difficile immergersi nelle atmosfere che i due protagonisti affrescano per noi, entrambi con quell’italiano soffuso di português che li rende così affabili e prossimi a noi.

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Eduardo Souto de Moura

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Souto de Moura apre il cassetto dei ricordi; niente di più curioso che scoprire la sua cifra poetica attraverso le immagini che il maestro fa scorrere per noi.
Il racconto di Souto De Moura risponde al quesito attraverso una moltitudine di informazioni. Nella mente di un architetto, del resto, le immagini sono molte, vengon assorbite continuamente – il progetto d’architettura è la sintesi di ciò che l’occhio della mente rievoca e rielabora, talvolta inconsciamente. Questa sera Souto de Moura apre il sipario e svela i propri riferimenti, espliciti e non, interessi culturali e passioni nonchè dirette preferenze. Una collezione di parole, ricordi, cognizioni e figure d’inesauribile ricchezza. La lezione è un tentativo di dar ordine al proprio immaginario e forse un’occasione anche per l’autore per conoscere se stesso. MoltI i personaggi citati: Thomas Bernhard, Glenn Gould, Ludwig Wittengstein, Picasso, Joseph Beuys, Gordon Matta-Clark, Adalberto Libera, Bill Viola, Ignazio Sironi, Kandinsky, Bach, Miles Davis… da questo incontro eterogeneo di arti ne emerge una predilezione per certi caratteri dell’architettura quali il “peso”, la “graniticità”; l’attenzione verso i principi universali leggibili nel regionalismo, nei luoghi, dove natura e opera dell’uomo si incontrano che quasi il “disegno” non si avverte, per gli spazi ove la gente si sente bene e possono dirsi “buona architettura”. Quindi attraverso le loro opere, de Moura insegna a riconocere anche gli architetti che hanno influenzato il suo percorso, classici e contemporanei: Schinkel, Loos, Quatrèmere de Quincy passando per Scott Venturi, Zumthor, Le Corbusier, Xenakis, Mendes de la Rocha, Porphyrios, Barragán, Neumeyer, Kahn, Grassi, Frei, Gardella, Mies van der Rohe, Moneo…
Si scopre così un mondo di relazioni che hanno avvalorato il suo lavoro negli anni e che qui, rese esplicite, denotano l’elegante misura, coerenza e continuità col moderno dell’opera del progettista.
L’ultimo passaggio è dedicato a Siza, mostrandone alcuni disegni ed osservandone le forme tra imitazione della natura e progetto creativo, per passare la parola all’atteso maestro.

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Álvaro Siza

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La narrazione di Álvaro ha principio con una similitudine tra fare architettura ed il mestiere di scrivere. Se, parafrasando Saramago, non apprende a scrivere chi non sa leggere, allo stesso modo il dono dell’architettura è legato alla capacità di leggere l’architettura.
Come nel format di una “doppia intervista”, Siza ora, attraverso la personale selezione di immagini, esplicita il proprio percorso personale di vita e di lavoro, raccontando di sè con la naturalezza di un uomo che ha raggiunto con soddisfazione e senza rimpianti un equilibrio di vita e di opera.
Apprendiamo come si sia avvicinato all’architettura attraverso strumenti di conoscenza, le stesse riviste, al tempo della sua formazione così rare e difficili da reperire e come esse siano state fondamentali per innescare il passaggio di interesse e predilezione avvenuto tra scultura e architettura. Perchè per primo Siza è nato scultore e le sue opere conservano ancor oggi il segno di una mano sempre capace di tagliare o comporre l’essenziale, privando la materia di tutto ciò che non è indispensabile.
Poi il passaggio dall’autoreferenzialità dell’arte al fine “sociale” dell’architettura, su tutte le scale, dalla casa alla costruzione della città. L’insegnamento appreso dalla città esistente, dove le emergenze sono tali solo perchè immerse nel tessuto nella cui semplicità diffusa, se non se ne rispetta la condizione interna, l’architettura e i luoghi degni di memoria rischiano di non trovare più posto: così ” se in una città tutto brilla, i monumenti non hanno più ragione”.
Con due cognizioni fondamentali (e molto loosiane) i due maestri ci lasciano per passare al momento conviviale della serata (audace “cena del cavatore” dove formaggio Asiago, soppressa e pasta e fagioli non possono deludere).
Se Souto de Moura saluta con un appello urgente, in un mondo dove siamo troppi e tutti uguali, ad essere “più classici”, Álvaro Siza conclude citando Pessoa (e Zevi insieme): “la cosa migliore del mondo è vedere” e quindi “sapere vedere l’architettura” è come da essa apprendere.

di Veronica Dal Buono

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