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2 Marzo 2009

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Architetture contemporanee in pietra strutturale

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Edificio in Finsbury Square a Londra di Eric Perry.

Accanto alle tendenze di assottigliamento della materia lapidea in texture atettoniche di puro rivestimento e alle applicazioni dove la pietra viene impiegata in modo collaborante, insieme all’acciaio o al cemento armato, per dar vita alla struttura degli edifici – si pensi in proposito ad alcune tipologie di rivestimenti a spessore – si fa strada oggi una nuova concezione finalizzata ad attualizzare il senso del peso e della gravità di consistenti corpi litici massivi, impiegati con funzione portante. Tale rilettura contemporanea degli antichi magisteri stereotomici (connessi cioè alla scienza del taglio delle pietre per la costruzione di dispositivi strutturali) è una condizione produttiva praticabile anche grazie all’avvento di macchine a controllo numerico, capaci di modellare la materia litica traendo i parametri di lavorazione direttamente dai prototipi digitali dei pezzi da realizzare.
Il ritorno alle applicazioni strutturali della pietra avviene con connotazioni diverse in due distinti ambiti d’intervento: nell’Europa mediterranea – con esiti particolarmente significativi nella Francia meridionale e nella penisola iberica – si assiste ad una riabilitazione di sistemi statici semplici e arcaici, murari o trilitici, posti con ritmi costruttivi regolari a definire spazi elementari e rigorosi dando vita ad architetture ieratiche e a tratti radicali, prive di qualsiasi compiacimento formale; nella cultura architettonica contemporanea di matrice anglosassone si è sviluppata invece da alcuni anni una ricerca originale sulla pietra armata, nata in Gran Bretagna dalle sperimentazioni di un inedito strutturismo tecnologico e sistematizzata, con esiti costruttivi ripetibili e applicabili a grande scala, nella fertile pratica professionale di progettisti quali Michael Hopkins, Eric Perry, e Renzo Piano.
Entrambi gli spazi applicativi meritano una particolare attenzione poichè riportano la pietra strutturale al centro di alcune linee di sviluppo dell’architettura contemporanea ma certo si collocano in un panorama europeo più ampio, in cui la tradizione della pietra portante sopravvive anche alimentando le consuetudini costruttive di ambiti territoriali molto circoscritti e fortemente connotati dal punto di vista della cultura materiale, o in contesti dove è impiegata per restaurare e ricostruire edifici monumentali in una prosecuzione retrospettiva di antichi magisteri.

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Progetto per un ostello a Lodrino di Stefano Zerbi.

Muri e monoliti portanti.
La Birreria a Malta progettata dallo studio di Peake, Short and Partners all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, è interamente realizzata con murature portanti in blocchi di una pietra sedimentaria locale. La forte inerzia termica delle strutture litiche massive, unita ad un particolare sistema costruttivo che ha previsto il raddoppio delle murature perimetrali con interposta intercapedine ventilata, ben si adattano a contrastare gli effetti dell’ampia escursione termica, sia stagionale che giornaliera, caratteristica del clima insulare. Aldilà del suo linguaggio architettonico fortemente ipotecato dalle robuste matrici figurali della tradizione costruttiva autoctona, l’opera rappresenta una delle prime esperienze attuali di rivalutazione dei sistemi costruttivi in pietra portante, particolarmente apprezzati in ambito mediterraneo in contesti in cui la materia lapidea è abbondante per la loro sostenibilità, per le alte prestazioni di raffrescamento passivo degli ambienti ed, infine, per i costi competitivi.
Nel contesto di esperienze di questo tipo – diffusesi negli ultimi 15 anni ma già prefigurate nel secondo dopoguerra in alcune pionieristiche costruzioni dall’architetto francese Fernand Pouillon – accanto alle più recenti realizzazioni di Cesar Portela (Cimitero a Finisterre in Galizia, 2003) e di Mansilla e Tunon (Progetto per il Museo delle Collezioni Reali a Madrid, 2005), si distinguono gli edifici di Gilles Perraudin, localizzati nel sud della Francia e caratterizzati da un originale e conciso purismo arcaista, scevro di sovrastrutture formali e pregnante di significato costruttivo.
La pietra calcarea di Vers, cavata attorno a Pont-du-Gard ai confini tra Linguadoca e Provenza, è per l’architetto un materiale ecologico per eccellenza, abbondante in natura, economico nei costi di estrazione, di posa in opera e di manutenzione. L’attività estrattiva di questo particolare litotipo giallo dorato, da sempre finalizzata alla realizzazione di elementi decorativi, porta al declassamento di una notevole quantità di materiale non commercializzato per la presenza di sacche di argilla o di conchiglie irregolarmente distribuite; Perraudin reimpiega innovativamente tale cospicua produzione di scarti di grande pezzatura come giacimento di materiale da costruzione, cavato per segagione automatica in grandi monoliti, facilmente trasportabili e direttamente montati in cantiere grazie all’ausilio di gru senza ulteriori lavorazioni.
Così, in un processo produttivo e costruttivo rapido, meccanizzato e a basso impatto inquinante, l’edificio cresce per blocchi posati a secco e lasciati a vista, senza intonaci e tinteggiature che necessitino di cicli manutentivi successivi, con semplici giunti di impermeabilizzazione all’aria che sigillano le commessure del paramento murario esterno a montaggio ultimato.
Nella Cantina di Vauvert (1996-99), il primo edificio realizzato in pietra strutturale dall’architetto francese, grandi monoliti calcarei – delle dimensioni di 52x105x210 cm – sono disposti a formare una sequenza di triliti; nel successivo Centro di Formazione di Marguerittes (1998-99) pochi ricorsi di blocchi dello stesso formato sono sufficienti per dar vita ad una ciclopica opera muraria isodoma; nell’ulteriore Cantina Les Aurelles (2000-01) le pesanti murature, incise da poche bucature a feritoia, sono formate da monoliti spessi 65 cm e lunghi circa 150 cm; nel collegio per oltre 1.000 studenti di Vauvert, progettato tra il 1998 e il 2001 e mai costruito, il calcare di Vers, tagliato ancora una volta in grandi parallelepipedi, avrebbe dovuto dar vita a pilastri dell’altezza di circa 8 metri, allineati in lunghe teorie a circoscrivere una vera e propria cittadella scolastica, estesa su quasi 13.000 metri quadrati di superficie.
L’architettura di Perraudin dimostra di saper recuperare con sicurezza la tradizione stereotomica instaurando un legame inscindibile tra materia, spazio e paesaggio; la scelta di ritorno alle radici della pietra massiva non è meramente retrospettiva o nostalgica, ma è tesa a distillare una nuova modernità a partire dai caratteri di semplicità, chiarezza e correttezza costruttiva più propri di quella tradizione architettonica mediterranea che può essere “esportata” anche in altri contesti come dimostra il recente progetto di Stefano Zerbi per un Ostello ed un Centro Sperimentale sulla Pietra a Lodrino nel Canton Ticino. La proposta del giovane architetto mira a dimostrare che un edificio interamente realizzato in triliti di pietra portante è attuale ed efficace nel soddisfare prestazioni di resistenza antisismica e di risparmio energetico; in specifico quest’ultimo aspetto è stato risolto da Zerbi traendo il massimo guadagno dagli apporti energetici della radiazione solare, sfruttando l’inerzia termica della pietra e riducendo considerevolmente il contributo degli impianti di riscaldamento riuscendo alla fine a progettare una struttura a basso consumo energetico secondo i più aggiornati standards internazionali.

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Architetture in pietra portante di Gilles Perraudin: in alto, la cantina Les Aurelles; in basso, sezioni costruttive comparate delle principali opere in pietra strutturale realizzate dal progettista francese.

Dispositivi strutturali in pietra armata.
A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la società di ingegneria britannica Ove Arup & Partners è stata protagonista di una serie di sperimentazioni finalizzate in generale ad attivare inedite interazioni tra i diversi saperi del progetto ed in particolare a costituire nuovi nessi tra discipline statico-strutturali e processi di innovazione tecnologica dei materiali da costruzione. Questo intreccio di fattori ha trovato la sua espressione tecnica più compiuta nel lavoro di Peter Rice, ingegnere che, sia per conto della Arup, sia in proprio, ha coordinato la progettazione esecutiva di una consistente serie di importanti realizzazioni sparse in tutto il mondo, dove la forma architettonica è diventata la diretta raffigurazione di figure statico-costruttive, di dispositivi resistenti improntati a profonde innovazioni delle tecnologie tradizionali del vetro, dell’acciaio, del cemento e della pietra. L’inedita poetica strutturale che si è così venuta a delineare è basata su opere concepite come sistemi di componenti assemblabili secondo una chiara gerarchia di funzionamento statico, prestazionale e costruttivo.
In tale contesto Il Padiglione progettato dallo stesso Rice per l’Expo di Siviglia del 1992 ha inaugurato una serie di sperimentazioni specifiche, finalizzate ad indagare le potenzialità della pietra strutturale armata con cavi metallici post-tesi per risolvere le ben nota carenze di resistenza a trazione e a flessione dei materiali litici. Le murature o i sistemi architravati in pietra temono soprattutto le spinte laterali statiche, generate ad esempio dai carichi obliqui delle coperture, o dinamiche, causate dall’azione del vento. Tali problematiche sono state storicamente risolte aumentando lo spessore delle strutture, o grazie a contrafforti, o ancora caricando la parte sommitale degli edifici con pinnacoli ed altri elementi al contempo decorativi e di appesantimento, utili a verticalizzare la risultante dei carichi.
A partire dalla realizzazione pilota del Padiglione e proseguendo con altre realizzazioni tra cui si ricorda la nuova facciata per la Cattedrale di Lille (1999), Rice ha introdotto sistemi di armature post-tese, capaci di integrare le qualità di resistenza a compressione della pietra con le alte prestazioni di resistenza a trazione dell’acciaio, risolvendo del tutto le problematiche strutturali sopra delineate.
La ricerca pioneristica dell’ingegnere inglese, nata dal parallelismo tra le sperimentazioni sul vetro e quelle sulla pietra (entrambi i materiali seppur con alcune variabili, presentano infatti le stesse caratteristiche di resistenza strutturale, cioè buone prestazioni a compressione, scarsa resistenza a flessione e alta fragilità ai carichi accidentali), è stata successivamente sviluppata da diversi rappresentanti dell’architettura contemporanea anglosassone e oggi la costruzione in pietra armata, applicata alla scala monumentale in opere quali l’Aula liturgica di San Giovanni Rotondo di Renzo Piano in cui grandi archi litici armati rappresentano l’anima strutturale e figurale del progetto, può ottenere una riconoscibilità internazionale frutto non di un’esperienza isolata ma di una cultura progettuale ormai trentennale, consolidata anche se non largamente diffusa.

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Dettaglio delle murature della birreria a Malta progettata dallo studio Peake Short and Partners.

La realizzazione di Piano, con il suo elevato valore costruttivo e formale, va infatti inscritta in quella che può essere considerata come una “tradizione attuale” della pietra strutturale armata, che dalle sue origini nelle intuizioni e nelle sperimentazioni di Peter Rice, approda certo alla sua massima espressione con l’Aula liturgica ma passa attraverso l’opera di architetti quali Michael Hopkins ed Eric Perry (Edificio in Finsbury Square a Londra, 2002), in un processo di sedimentazione e sistematizzazione che merita di essere analizzato e di essere portato alla conoscenza allargata dei progettisti contemporanei.
Rispetto alle sperimentazioni precedenti sull’applicazione della pietra armata, tale “tradizione” è connotata da caratteri di assoluta originalità: se infatti in passato le applicazioni della pietra armata, mai presollecitata, hanno sempre previsto una forte integrazione tra dispositivo litico (e/o laterizio) e getto concretizio in sistemi strutturali perlopiù continui – si pensi in proposito ad alcune realizzazioni francesi di Anatole De Baudot alla fine del XIX secolo o alla più recente esperienza di Giovanni Michelucci nella Chiesa dell’Autostrada di Firenze – nel caso della ricerca inaugurata da Rice pietra e armature, spesso presollecitate, collaborano senza mai essere ibridate con il cemento armato in sistemi strutturali quasi sempre discontinui.

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L’Aula liturgica di Padre Pio progetta da Renzo Piano in un plastico di studio.

Emblematiche in proposito sono le architetture di Hopkins, affermatosi tra gli anni ’70 e gli anni ’80 come uno dei maggiori rappresentanti dell’high-tech anglosassone più radicale e, a partire dagli anni ’90, del secolo scorso fautore di una personalissima ricerca tesa a coniugare innovazione tecnologica e confronto con la storia, in un costante lavoro di attualizzazione dei materiali e dei linguaggi espressivi della tradizione. Il laterizio e la pietra, impiegati perlopiù in dispositivi costruttivi portanti, sono al centro di tale processo di aggiornamento che si esplica attraverso la prefabbricazione parziale di unità tecnologiche assemblate successivamente in cantieri altamente razionalizzati e in opere uniformate ai più moderni criteri di sostenibilità ambientale.
In tale contesto il progettista inglese sviluppa un particolare tipo di sistema strutturale verticale, concentrato sulle facciate dei corpi di fabbrica e rappresentato da teorie di pilastri rastremati ad ogni livello in corrispondenza degli orizzontamenti; tali elementi portanti, parzialmente prefabbricati, diventano al contempo “sistema costruttivo” e cifra stilistica riconoscibile che si ripete, come applicazione del laterizio nel Teatro dell’Opera di Glyndebourne (1989-94 ) e negli Edifici del Fisco di Nottingham (1992-95), e, in veste litica con armatura metallica nella Portcullis House per il parlamento londinese (1992-2001) e nel Queen’s Building di Cambridge (1993-95).
Per stare alle ultime due opere eseguite con la pietra, la serie dei piedritti è realizzata grazie all’impilamento di conci all’interno dei quali è fatta passare un’armatura in acciaio post-tesa a tensione modificabile: nel grande edificio londinese i pilastri compartecipano poi ad un sistema statico complesso che fa della contaminazione tecnologica e della ibridazione materica il suo punto di forza; la più piccola realizzazione di Cambridge è invece l’enunciazione chiara e lineare di un magistrale meccanismo statico in pura pietra armata. L’edificio di tre piani, che contiene un auditorium da 170 posti e alcuni spazi collettivi del prestigioso Emmanuel College, si presenta come un volume autonomo, un corpo dall’aspetto monolitico interamente realizzato in pietra. Inserita in un contesto edificato di forte identità storica, l’architettura di Hopkins propone ancora una volta una decisa innovazione tecnologica a partire dalla memoria e dalla tradizione: i blocchi litici che compongono la struttura dell’edificio, e che rimangono a vista sulle facciate, sono infatti di calcare di Ketton, lo stesso materiale impiegato da Christopher Wren per costruire la cappella seicentesca del college, ma questa volta la pietra è declinata in forme e prassi esecutive inedite.
La volontà di impiegare la muratura litica isodoma come dato linguistico e costruttivo accomunante che legasse la nuova realizzazione alle preesistenze circostanti, unitamente alla necessità di liberare da orizzontamenti il grande volume interno dell’auditorium, nonchè di aprire ampie luci finestrate nella parte sommitale delle cortine murarie, ha portato l’architetto ad optare ancora una volta per il sistema costruttivo dei pilastri ad armatura post-tesa, già collaudato nel cantiere londinese di più lunga gestazione.

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Vista e sezione del Queen’s building a Cambridge di Michael Hopkins.

La facciata litica continua del Queen’s Building spessa 40 cm, ad un’attenta analisi, risulta infatti costituita da una reticolo portante di pilastri e piattabande di collegamento; le maglie quadrate individuate dall’intelaiatura sono lasciate vuote al piano terreno per dar vita ad un portico che corre intorno all’intero perimetro dell’edificio, al primo livello sono tamponate da pannelli prefabbricati con rivestimento lapideo esterno, e all’ultimo piano sono chiuse da grandi vetrate trasparenti. Se la facciata è dominata dalla presenza omogenea e totalizzante del litotipo dorato di Ketton, è pur vero che il reticolo strutturale è leggibile in filigrana attraverso la differenziazione dimensionale dei conci tra i pilastri e le superfici di tamponamento, e grazie ad una sottile scanalatura che contorna i pannelli prefabbricati di chiusura.
Le opere sin qui descritte sono i risultati di una cultura sperimentale e progettuale determinante nel panorama dell’architettura litica attuale, capace di dare risposte appropriate alle istanze della contemporaneità rinnovando la sfida dell’innovazione tecnologica a partire dalla semplicità archetipica di muri, triliti e archi. Sono ancora una volta i concetti di ibridazione e contaminazione tecnologica a rendere possibile la riabilitazione di questi dispositivi costruttivi, oggi rimodellati nella loro configurazione e nelle loro proporzioni dai nuovi equilibri statici creati dalle armature interne; anche nel campo delle sue applicazioni strutturali la pietra sembra non presentare più limiti, i vincoli dimensionali e di sollecitazione che essa poneva in passato appaiono risolti, e si è inaugurata una nuova stagione in cui la materia lapidea ha dimostrato di poter diventare un’alternativa praticabile anche nel compimento di grandi opere, aprendo ad inedite soluzioni di interazione tra le qualità delle forme e degli spazi architettonici e il disegno dei sistemi statico-costruttivi con cui essi sono realizzati.

di Davide Turrini

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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