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7 Febbraio 2011

Opere Murarie

L’opera muraria megalitica*

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Dettaglio delle mura megalitiche di Tirinto

Una delle più rudimentali modalità di “far muro” a mezzo della pietra è l’opera megalitica che si rintraccia nello stadio arcaico delle civiltà mediterranee e, poi, soprattutto nella Grecia continentale e nelle regioni contermini (Asia Minore, Italia ecc.).
Una testimonianza – fra le più antiche – è rappresentata dalle mura di Tiro, costruite intorno al 1400 a.C. utilizzando grandi massi rozzamente squadrati, sviluppate su uno spessore di circa 6 m; questa particolare tipologia di muraglie è definita ciclopica poiché la letteratura antica, proprio in riferimento a Tiro, l’ha avvolta all’interno della tradizione dei miti e ce l’ha restituita attraverso un azione costruttiva ascritta a sovrumani artefici quali erano immaginati i giganti della Tracia, i soli ritenuti capaci di poter “smuovere” i grandi macigni che la compongono. Pausania, che scrive nel II sec. a.C., riferendosi alle mura di Tiro afferma:

«Il muro, tutto ciò che resta delle rovine della città, è opera dei Ciclopi: è costruito con pietre non sbozzate, ognuna delle quali è così grande che un giogo di muli sarebbe incapace di smuovere anche la più piccola di esse. Nei tempi passati piccole pietre venivano poste negli interstizi fra un masso e l’altro allo scopo di connetterle per quanto possibile».

Ad accendere un nuovo “fuoco” di civiltà nel mondo del Mediterraneo orientale – dopo l’affievolirsi dell’impulso fenicio e lo spegnersi di quello minoico intorno al 1400 a.C. – e a dare un inedito sviluppo a questa tecnica costruttiva saranno le popolazioni continentali dell’Argolide nel Peloponneso con centro di propagazione in Micene che lega il suo nome a tale esperienza di civilizzazione.
Da un punto di vista cronologico l’opera muraria megalitica che si mostra all’evidenza archeologica attraverso un numero limitato di testimonianze, non ha facilitato sino ad oggi la definizione di un sicuro e condiviso sviluppo evolutivo. Si presenta, lungo tutto il II millennio a. C., con anticipazioni significative in ambiente greco, in particolare nelle cittadelle fortificate di Tirinto, Micene, Gla; in questi territori, sopratutto nella piana di Argo, vi è un’ampia disponibilità di calcare duro riducibile in grandi blocchi irregolari utili alla costruzione di poderose strutture difensive. Qui si innalzano grandi muraglie, piuttosto che di muri, formate da macigni di ingente mole mirabilmente sovrapposti e contrastati reciprocamente.
Queste “muraglie di fortezza” individueranno un genere di realizzazioni con svolgimenti costruttivi del tutto peculiari rispetto a quanto sarà espresso dall’architettura monumentale propriamente greca. Fortemente dipendenti dalle esigenze pratiche, difensive, le mura urbiche delle cittadelle micenee sono spesso “saldate”, ai siti rocciosi su cui si insediano amplificando le difese naturali; bastioni, salienti, porte protette da avancorpi, lunghi tratti murari rettilinei di possente dimensione sono concepiti secondo un’attenta integrazione rispetto alle caratteristiche topografiche dei luoghi.


Murature megalitiche di età micenea nell’Acropoli di Atene

L’architettura continentale micenea nell’organizzare le sue strutture difensive e i palazzi (intesi quali sedi di caste militari conquistatrici) benché faccia trasperire alcuni retaggi minoici – leggibili nell’uso dei portici e dei propilei a colonne, nell’allestimento dei vestiboli del mégaron, nelle tecniche ornamentali ad affresco – mostra i caratteri di una creazione originale con un rinnovato e peculiare modo di concepire ed eseguire l’opera muraria in pietra predisposta a delimitare spazi attraverso possenti recinti, ad alimentare una visione della costruzione fatta di massa, di volumi serrati ed avvolgenti. Mura ciclopiche vengono utilizzate per recingere le cittadelle di Micene, di Argo, di Tirinto e per rafforzare artificialmente, con sbarramenti di pietra, siti già naturalmente protetti; si presentano normalmente sottoforma di cortine murarie continue attraversate unicamente da porte sormontate da grandiosi monoliti disposti a formare rudimentali architravi.
All’impianto planimetrico “aperto”, a terrazze, dei raffinati palazzi minoici rifiniti prevalentemente a stucco affrescato, subentra una vigorosa, severa, monumentale architettura chiusa su se stessa la cui costruzione è alimentata dall’uso di grandi conci di pietra a volte informi o poligonali, altre già perfettamente regolari e squadrati. Alla dispersione e all’estensione ondulante dei palazzi cretesi viene sostituita un’architettura “feudale” che s’insedia su posizioni dominanti: la pietra, ricomposta nell’opera muraria ciclopica, con la sua possanza ne esprime il valore di forza, di inattaccabilità, di indistruttibilità.

«Il terreno non è più occupato – come precisa Roland Martin – da appartamenti disposti ingegnosamente su più di un piano e aperti sul paesaggio come a Cnosso, ma da muraglie di grossi blocchi ciclopici appena squadrati, uniti abilmente e forati da postierle, a cui fanno capo delle scale fortificate, sistemate talora in casematte, come a Tirinto, dove le volte ad archi diedri chiuse da due blocchi appoggiati l’uno sull’altro, hanno resistito al passare dei secoli». 1

È soprattutto la forza volumetrica della composizione architettonica, impostata saldamente sull’opera muraria con grandi blocchi di pietra, a rappresentare il nuovo vento continentale a cui si associa, subito, una ricerca monumentale delle masse asserragliate intorno allo spazio introverso del sala del trono, del mègaron; tutti caratteri, questi, oppositivi ai palazzi regali dell’architettura cretese.
Il palazzo di Tirinto, realizzato nel XIII sec. a.C. in modo maggiormente evidente rispetto ad ogni altra roccaforte (più di quella di Pilo, di Micene, di Tebe, di Mathi) offre l’esempio maturo ed unitario della nuova concezione micenea. La rocca, che acquisisce il suo assetto definitivo intorno al 1200 a.C., è la struttura difensiva meglio conservata con le sue mura megalitiche a grandi macigni; lo spessore di queste ultime è mediamente di 6 m (in alcuni tratti si raggiungono addirittura i 10 m) su cui, realisticamente, è possibile ipotizzare l’esistenza di un coronamento con camminamento di ronda formato da mattoni di argilla cruda ed integrato da strutture lignee secondo modalità e abitudini mediterranee consolidate così come è ancora attestato nelle mura difensive ellenistiche di Capo Soprano a Gela in Sicilia.
All’interno delle mura ciclopiche di Tirinto, poste a serrare il piccolo podio naturale che consente di controllare dall’alto la piana di Nauplia ed Argo, ritroviamo altre anticipazioni costruttive i cui svolgimenti evolutivi seguiremo nei capitoli successivi della nostra trattazione. Ci riferiamo, in particolare, agli ambienti delle “casematte” dove è possibile rintracciare – negli spazi di smistamento delle truppe – dispositivi rudimentali di archi e di volte a sesto acuto (o, più esattamente, di pseudoarchi e di pseudovolte) ottenuti mediante la collocazione in aggetto dei grandi macigni.
A Tirinto siamo di fronte all’ultima espressione – ma anche alla più spettacolare – di sistema murario megalitico dell’antico Mediterraneo. Con uno scarto cronologico di circa un millennio le popolazioni italiche, insediatisi fra il V e il III sec. a. C. sulle alture del Lazio meridionale, si riallacceranno a questa particolare tipologia costruttiva per difendere le loro città (Alatri, Arpino, Norma, Cori) quando le altre etnie della penisola – gli etruschi, i greci d’occidente, i romani – a questa data innalzano già perfetti muri in opera quadrata.


Mura urbiche di Micene

Chi lascia Tirinto e si porta alla cittadella di Micene, centro propulsore della civiltà micenea davanti alla Porta dei Leoni ha una conferma di eguale possanza guardando le mura ciclopiche che ancora superbamente la cingono, ma al tempo stesso riceve anche l’impressione di un “mondo nuovo”. Le strutture urbiche di difesa a grandi macigni, del XIV sec. a.C., danno vita ad una cinta mistilinea (con uno spessore compreso fra i 6 e gli 8 metri) solo interrotta, a nord, mediante una postierla ogivale e, a sud, dalla celeberrima Porta dei leoni; quest’ultima è inquadrata da tre blocchi monolitici squadrati con un architrave di 20 tonnellate che sorregge la lastra del rilievo, alta tre metri, posizionata secondo il triangolo di scarico per alleggerire l’architrave stesso.
Il “mondo nuovo” che sembra aprirsi agli impieghi della pietra è rappresentato dal modo di concepire l’opera muraria che qui sembra regolarizzarsi e perfezionarsi sperimentando, inoltre, soluzioni costruttive inedite quali le strutture a pseudocupola delle tombe ipogee a tholos dei principi micenei, con pareti curvilinee in pianta e in alzato, che rimarranno tecnicamente, per molti secoli, insuperate, oltre che dimenticate dall’architettura greca per ciò che riguarda, soprattutto, le loro implicazioni spaziali.


Dettaglio delle mura urbiche di Micene

E’ da evidenziare come nella esecuzione tecnica della cinta difensiva di Micene si registrano diversi modi costruttivi dell’opera muraria: a tratti essa risulta realizzata con grossi macigni informi, in altri con massi di forma poligonale a facce tagliate rozzamente, in altri ancora con blocchi perfettamente squadrati disposti in filari orizzontali che già anticipano la maniera dell’opera quadrata. Valga per tutti proprio il tratto della Porta dei Leoni – a cui viene assegnato un ruolo fortemente rappresentativo – realizzato utilizzando blocchi rettificati e pareggiati, disposti in corsi perfettamente allineati e regolari. Lo stesso gusto all’opera quadrata si esprime, con ancor maggiore evidenza e precisione esecutiva, sempre a Micene, nelle tombe a tholos localizzate appena fuori dal circuito della cittadella, in particolare nel Tesoro di Atreo che ne incarna il modello più evolutivo e meglio conservato.
Ritornando all’opera ciclopica e alle sue implicazioni tecnologiche è da evidenziare come, differentemente dall’opera poligonale, le strutture murarie megalitiche presentino soluzioni di interconnessione fra i massi impiegati assai poco accurate, facendo affidamento per il contrasto e la stabilità a scaglie litiche di “rincalzo” (integrate a volte da “colate” di argilla semiliquida eseguite fra gli interstizi vuoti del muro). Lo stesso trattamento assegnato al paramento esterno delle mura appare rudimentale; in genere esso non sfrutta alcuna lavorazione se si esclude qualche parziale rettifica delle facce dei blocchi litici da lasciare a vista.
In questo tipo di muratura le pietre – disposte l’una sull’altra, cercando di colmare il più possibile i vuoti – sono stabilizzate dal notevole peso proprio e dall’attrito reciproco che le diverse facce esercitano fra loro. L’esecuzione di tali dispositivi murari procede realizzando, prima, i paramenti esterni (calzandoli attraverso scaglie) e procedendo, poi, alla formazione del nucleo interno. Le murature sono realizzate a secco (ovvero senza interposizione di malta in funzione di legante) lasciando i massi nelle loro forme irregolari d’origine – o solo leggermente modificati col taglio – disponendoli in modo che, nella struttura, possano “contrastarsi” reciprocamente.

Alfonso Acocella

Note:
*) Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Roland Martin, “L’architettura micenea” p.26, in Architettura greca, Milano, Electa, 1980, pp. 198.

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