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27 Giugno 2011

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Manuel Aires Mateus. Lo spazio è il tema

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Manuel e Francisco Aires Mateus, Casa a Melides, 2000-2002.

“Siamo debitori di Roma dell’assunzione artistica dello spazio nell’architettura; la vera e propria architettura come linguaggio spaziale nasce a Roma. Oggi, dopo duemila anni di esperienza architettonica compiuta nella scia di Roma, ci riesce facile affermare che lo spazio è il mezzo di espressione specifico dell’architettura e soltanto di essa (…). Roma concepisce lo spazio non come termine di armoniosa contemplazione, ma come luogo della sua azione, della sua insaziabile esperienza e conquista: e perciò si circonda di spazio, e nei suoi edifici allarga, tende i vani interni, li volta in absidi, in cupole; infine li fa quasi esplodere in una dilatazione immensa: chi entri nel Pantheon, o tra i ruderi delle Terme o della basilica di Massenzio, si sente subito avvolto dal senso d’una straordinaria enormità di spazio. Uno spazio che sempre più si allarga, ma che sempre si riporta unitariamente al suo centro, come l’impero dei romani. L’architettura romana è dunque il primo linguaggio costruttivo propriamente spaziale. (…)
Ma se vogliamo intendere l’architettura come arte, lo spazio va considerato, o meglio sentito, non come una realtà fisica, ma come una creazione fantastica: di carattere teorico, non pratico; esso non è più solo il luogo del nostro soggiorno o della nostra curiosità turistica, ma è la poesia dell’architetto, la forma in cui esprime se stesso.”

Sergio Bettini, Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Dedalo, 1990 (ed. or. 1979).

Il vuoto
La “formalizzazione” dello spazio compreso entro i limiti murari di un edificio è da secoli il problema di fondo della sperimentazione dell’architettura occidentale.
Le forme dell’architettura greco-ellenistica, plastiche e lineari, sono state povere di rapporti spaziali interni e di significatività dimensionale, a fronte di una concezione configurativa che ha esaltato il pathos degli esterni attraverso l’uso di ordini architettonici marmorei in chiave plastica. Sono gli architetti romani, per primi, a trasferire negli interni i valori dello spazio esaltandoli morfologicamente e dimensionalmente per consegnarli all’architettura tardo antica e poi, in qualche modo, a tutta la tradizione occidentale che giunge sino a noi. L’opera dei fratelli Mateus non è esente, come già ampiamente evidenziato nei saggi di questo volume, dalla fascinazione dello spazio architettonico al punto di rappresentarne in ultima istanza la cifra stilistica fondamentale.


Manuel e Francisco Aires Mateus, Edifici Laguna Furnas nelle Azzorre, 2010-2011.

Manuel Mateus sulla scia dell’insegnamento di Gonçalo Byrne, Fernando Tavora, Alvaro Siza Siza – ma anche, ritengo, sull’influenza di altri Maestri ineguagliati del Novecento quali Rafael Moneo e Peter Zumthor guardati a distanza (ma anche vicini e contigui per Manuel, come per il maestro di Vals nella scuola di Mendriso che li ha avuti entrambi teacher da almeno un decennio) – sembra portare con sé, come dote naturale, nella sua architettura i sigilli di una spazialità contemporanea assoluta, silenziosa, neutra ed elegante. Una spazialità figlia di quella visione figurativa “riduzionista” e “monomaterica” del Novecento – alimentata, in avvio di secolo, dalle avanguardie del Movimento Moderno e, poi, riemergente attraverso continue “rinascenze” fino alla tendenza del minimalismo internazionale di fine millennio – materializzatasi attraverso i caratteri selettivi ed omogenei portati sulla materia, sulle superfici, sullo spazio dell’architettura.


Manuel Aires Mateus, Padiglione Pibamarmi alla 45° edizione Marmomacc, 2010.

Se lo Spazio è il Tema dell’Architettura, sotto l’apporto originario e sublime di Roma, e della stessa opera di Mateus, ci chiediamo allora se sia possibile (e in che modo) parlare di questa ineffabile entità – inafferrabile al pari della sfuggente nozione di Tempo, che pure sembra “far capolino” nell’intervista di Manuel rilasciata a Davide Turrini all’interno del dedalico scrigno litico di Pibamarmi a Marmomacc 2010 – cercando di definirne la sua essenza, o quantomeno qualche carattere, qualche elemento di riflessione.
Parmenide, fondatore della scuola filosofica di Elea, rappresenta il concetto di spazio attraverso la visione del “vuoto come negazione del pieno”, inscrivendo nella categoria ideale di “quel che non è” e, conseguentemente, escludendolo dall’ambito del reale.
Ma valutando che di spazio ne parliamo, lo esperiamo e lo misuriamo quotidianamente con i nostri passi, per noi architetti lo spazio è “oggetto reale”, anche se non “oggetto fisico”. Oggetto reale come luogo vuoto, entità circostante a tutte le altre o vuoto fra entità altre; luogo illimitato e indefinito, a volte, in cui gli oggetti fisici vi si trovano collocati; luogo configurato, definito e formalizzato, altre, come in tutte le vere architetture. Un vuoto che gode di proprietà geometriche – da cui la qualifica di euclideo – ai confini del quale avviene la magia della fusione im_materiale, là dove il vuoto incontra il pieno entrando in contatto e contiguità con l’epidermide, ovvero l’ultimo strato della materia che comprime e visualizza lo spazio architettonico.


Manuel e Francisco Aires Mateus, Museo del Faro a Santa Marta, 2007.

Il pieno
Le tre dimensioni (x, y, z) non sono soltanto il luogo dello spazio euclideo, ne incarnano pure la materia che si affaccia su di esso con i suoi caratteri di pesantezza e di equilibrio. Il rapporto che unisce vuoto e materia in un’architettura non è mai indifferente, o fisso, e modella lo spazio secondo caratteri e assetti calcolati mai più modificabili sostanzialmente se non dal Tempo, la quarta dimensione latente dello spazio.
L’architettura – più volte è stato detto da teorici e trattatisti – ha inizio nel momento in cui sulla superficie orizzontale del suolo l’uomo insedia dei muri che s’innalzano in verticale per ritagliare uno spazio propizio alla vita degli individui rispetto allo spazio naturale, vasto, incommensurabile, spesso inospitale.
Il muro – destinato a racchiudere e modellare lo spazio – non è mai ricavabile “tutto d’un pezzo” dalla crosta terrestre. I materiali, gli elementi prelevati dalla terra vanno “assemblati” a formare dispositivi costruttivi, trame, ricoprimenti, superfici, infine architettura. Ma l’architettura – per dirla con Henri Focillon – «non è una collezione di superfici, ma un insieme di parti, le cui lunghezza, larghezza e profondità s’accordano tra loro in un certo modo e costituiscono un solido inedito, il quale comporta un volume interno [spazio] ed una massa esterna».1


Manuel e Francisco Aires Mateus, Edifici Laguna Furnas nelle Azzorre, 2010-2011.

Per isolare uno spazio architettonico dall’immensurabile superficie terrestre è necessario “piegare”, “curvare” il muro o quantomeno elevare una coppia parallela di pareti posizionate in modo tale che la loro topologia insediativa produca un vero “blocco” spaziale. In tutti questi casi, grazie al dispiegamento inclusivo di muri avvolgenti – così come si presenteranno dalle origini della civiltà architettonica i recinti sacri egiziani, le mura urbiche delle cittadelle micenee o quelle dei tèmenos dei santuari greci – si “materializza” un intervallo di superficie terrestre interclusa fra evidenti e fisiche pareti verticali: è questa l’archetipica ed eterna magia della creazione dello spazio architettonico. Sullo scenario orizzontale del suolo s’insedia la costruzione muraria volumetricamente incisiva che porta in sé – al pari di uno scrigno – la definizione dello spazio architettonico dotato di un carattere e di un valore molto particolare.
A Verona Manuel Aires Mateus rinnova il rito della creazione spaziale.


Manuel Aires Mateus, Padiglione Pibamarmi alla 45° edizione Marmomacc, 2010.

Il padiglione realizzato per Pibamarmi è scandito spazialmente da una serie di diaframmi visuali, costituiti da setti e muri litici – monomaterici, monocromatici, omogenei, complanari – dalla figuratività solida e corposa. L’esperienza fruitiva vissuta all’interno di questa struttura dal carattere labirintico viene pervasa dalla forza dimensionale dei massivi volumi litici che – ostruendo parzialmente la vista di colui che vi si addentra e, allo stesso tempo, “aprendola” verso inediti scorci – invitano a muoversi all’interno dello spazio dall’intensità dedalica restituendolo attraverso una molteplicità di punti di vista e sfondamenti prospettici.
All’interno dello spazio – contratto e serrato – del padiglione, stretti passaggi si alternano a slarghi e varchi che fanno da contrappunto ad inaspettati vicoli ciechi: un gioco calibrato di pieni e di vuoti che sembra rievocare su scala ambientale, architettonica, la stessa morfologia che anima le vasche e i lavabi di pietra esposti all’interno di tale intrico di vie.
Questi artefatti litici in-formano, di fatto, la materia proponendo anch’essi un calibrato gioco di masse e cavità. Alla spigolosità dei muri e dei pilastri si sostituisce però la sinuosità e la morbidezza delle curve, quasi a suggerire il corpo fluido dell’acqua che tali oggetti si apprestano ad accogliere al loro interno.

di Alfonso Acocella

Note
1 Henry Focillon, “Le forme nello spazio” p. 32, in Vita delle forme, Torino, Einaudi, 1990, (titolo originale Vie des Formes suivi de Eloge de la main, 1943, p. 134).

* Il post riedita il saggio di Alfonso Acocella intitolato “Lo spazio è il tema” e contenuto in Davide Turrini, Manuel Aires Mateus. Un tempio per gli dei di pietra, Melfi, Libria, 2011, pp. 93.

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