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18 Ottobre 2012

Opere Murarie

Muri regolari fra oblio e riabilitazione*

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Palazzo postale (1933-36) di Piazza Bologna a Roma di Mario Ridolfi (foto: A. Acocella)

Vorremmo aprire quest’ultima sezione, inscritta nell’ampio capitolo sui Muri di pietra, con una lunga citazione legata alla riflessione teorica di un architetto che ci è stato idealmente vicino, con il suo insegnamento, con la sua posizione ostinata ed intransigente, a mantenere viva in noi la possibilità di una linea di ricerca difficile, che in certi momenti ci è apparsa isolata, inattuale, priva di prospettive in un’epoca autoreferenziale (poco interessata al passato come al futuro) ma che sentivamo, istintivamente, autentica e praticabile almeno all’interno del nostro particolare “laboratorio “ speculativo.

«Quando guardiamo le architetture del passato – afferma Giorgio Grassi – noi come architetti, senza eccezione credo, cerchiamo di penetrare il loro segreto. Parlo naturalmente delle buone architetture, di quegli esempi che s’impongono alla nostra attenzione e che la trattengono; di quegli esempi ai quali ritorniamo per riprendere fiducia nel nostro lavoro. E parlo anche di quel loro segreto che presuppone sempre però un disvelamento. (…)
A noi interessa il loro segreto, per così dire tecnico, c’interessano i criteri, le modalità, il loro come prima di tutto. E’ questo il carattere della nostra osservazione, guardiamo per imparare come si fa. E la prima cosa che impariamo, spesso a nostre spese, è che questo segreto non appartiene alla forma in sé. Anzi la forma in sé, la forma isolata, è sempre un enigma e come tale ci scoraggia. Invece il carattere positivo, d’incitamento che ha sempre in noi una buona architettura è qualcosa che è incluso certo nella forma stessa, ma che è altrettanto prima e dopo la forma, che precorre la forma e dalla forma si distacca.(…)
Attenendosi all’emergente aspetto tecnico-pratico della forma, a poco a poco annulliamo la distanza che la separa da noi. Pur consapevoli dell’importanza che hanno le condizioni storiche, culturali, sociali ecc. nella definizione delle forme dell’architettura, noi siamo attirati piuttosto dalle condizioni materiali, pratiche, siamo attirati dal loro lavoro, e questo ce li avvicina. Quando come architetti parliamo di astoricità delle forme architettoniche, intendiamo piuttosto questo, e parliamo di appropriazione più che altro nel senso del percepire, del condividere le ragioni pratiche di tali forme.
Questo modo specificamente tecnico di avvicinare la forma è anche il solo modo di tenere la forma alla giusta distanza. Impariamo a guardare, riconosciamo la precisione delle soluzioni, la linearità dei movimenti, a poco a poco acquistiamo la familiarità con gli elementi del lavoro, la costruzione ci appassiona non la forma.
Qui la nostra capacità di percepire è al sicuro e può lasciare ogni precauzione, guardiamo con l’occhio dell’apprendista, guardiamo con l’occhio attento al come».1


Casa a Senigallia (1998-2004) di Danilo Guerri (foto: A. Acocella)

Il come dell’architettura muraria ci mette indubbiamente di fronte al lungo bagaglio di esperienze, ai dispositivi tecnici di costruzione, alle regole, alla realtà di ciò che è insopprimibile e durevole. Soffermandosi sul come, sugli aspetti tecnico-pratici e permanenti della costruzione dei muri regolari s’impongono, pertanto, ancora una volta i modi assemblativi, “connettivi” rispetto ad ogni riflessione sul “dire figurativo” più generale ed inclusivo dell’opera muraria. Ci scusi il lettore se ripartiamo quasi da zero, a riprendere in mano ciò che – apparentemente – possiamo ritenere di sapere, di conoscere. Ma un’investigazione su ciò che saremmo inclini a dare per scontato ci consentirà di far nascere nuovi punti di vista.
E allora apriamo la questione che attiene al concetto di “regolarità”.
La caratteristica di fondo, indubbiamente, dei muri regolari è di utilizzare elementi litoidi, sottoposti ad un’accurarata lavorazione di taglio (conci, blocchi, listelli ma anche cunei, settori di cilindri, di coni, di sfere ecc.) al fine della prefigurazione di assetti murari fortemente definiti sotto il profilo del disegno di crescita in elevazione. Siamo di fronte al sostanziale trasferimento della materia litica dal regno delle cose “informi” della natura a quello dell’ordine geometrico dell’architettura attraverso il conferimento di misure, rapporti, ritmi impressi alle masse di pietra. Sverre Fehn ci ricorda come la pietra squadrata rappresenti la prima sicurezza dell’uomo in direzione della modificazione del paesaggio naturale.2
La modellazione esatta della materia litica – a cui si accompagna, in genere, la lavorazione accurata delle superfici – ha il sopravvento rispetto alla contingenza, all’eterogenità delle risorse litiche disponibili liberamente in natura che invece condizionano la realizzazione dei muri irregolari. L’esecuzione dei muri regolari obbedisce ad una precisa ed ordinata geometria configurativa che investe sia la morfologia dei singoli elementi di base che la concezione dell’ossatura murale generale.
La pietra non è più “materia informe” bensì “materiale formato” per finalità costruttive specifiche. La costruzione dei muri, nelle condizioni più ricorrenti, avviene per sovrapposizione progressiva di materiale organizzato secondo “corsi” o “filari”, formati da conci litici parallelepipedi, sfalsando i giunti verticali. Obiettivo architettonico è di pervenire ad un assetto complessivo del piano murario di natura eminentemente stratigrafica.
Si è di fronte ad una restituzione ordinata e geometrizzata dell’opera muraria in cui la complanarità della sezione murale, il parallelismo dei piani, l’equivalenza o – comunque – la confrontabilità morfologica e dimensionale dei singoli elementi costitutivi il dispositivo di apparecchiatura rappresentano fattori di spinto controllo architettonico. All’interno delle tecnologie tradizionali od innovate di lavorazione dei materiali lapidei è possibile selezionare i mezzi e i procedimenti idonei ad ottenere i componenti di base della costruzione in pietra da taglio che ancora oggi indichiamo con il termine di “conci”.
Tali elementi possono assumere forme anche molto particolari di cui nel passato si è occupata la disciplina della stereotomia (diventata presto una branca importante della geometria descrittiva) ed oggi è appannaggio delle avanzatissime macchine di taglio a controllo numerico. Le murature ottenute con grandi pietre squadrate sono state impiegate, con continuità, dall’antichità fino ai primi decenni del Novecento, alimentando la costruzione degli esempi più rappresentativi della grande architettura civile. Queste opere, ancora oggi, s’impongono per il loro valore estetico ed il loro stato di conservazione.


Dettaglio di facciata delle Poste di Piazza Bologna a Roma di Mario Ridolfi (foto: A. Acocella)

Nella recente tradizione, in particolare ci riferiamo alla seconda metà del XX secolo, la muratura in pietra da taglio ha ricevuto solo parziali valorizzazioni da parte delle principali tendenze della ricerca architettonica e, quasi sempre, con caratteri di eccezionalità; applicazioni sporadiche, in altri termini, all’interno dei programmi di costruzione almeno in Italia (e nei Paesi a più avanzato sviluppo industriale) dove l’affermazione dei materiali artificiali ha “marginalizzato” sul campo i cavatori, i produttori, i saperi e i magisteri costruttivi a base lapidea, gli ultimi architetti che hanno mantenuto in vita l’opera muraria regolare all’interno delle loro realizzazioni.
Ci dispiace registrare come cose familiari per studi, per valori riconosciuti ed acquisiti dal bagaglio culturale della disciplina, sono diventate estranee a gran parte dell’architettura contemporanea insieme alla consapevolezza di non poterne fare a meno, visto che fisicamente molti di noi continuano a vivere (o a cercare di vivere) in città storiche di pietra o di laterizio all’interno di manufatti con murature a forte spessore di cui riconosciamo valori figurativi, qualità ambientali che altrove (soprattutto nell’architettura delle nuove espansioni urbane) non riusciamo a rintracciare.
Tale eclissi, comunque, non sta a significare che la pietra sia stata completamente dimenticata nell’epoca recente; essa è sempre rimasta una risorsa di primo piano, impareggiabile per le sue intrinseche e variegate qualità, sia pur progressivamente indirizzati verso applicazioni che hanno teso sempre più a ridurre la massa, la forza dei muri a forte spessore.
L’opera muraria ci pone – oggi – concettualmente di fronte ad un linguaggio tradizionale, in qualche modo, respinto, tenuto a distanza da almeno cinquant’anni dall’architettura moderna. Non si è trattato di un processo naturale, di caduta in disuso per esaurimento delle sue potenzialità interne, ma esito di un abbandono, di un azzeramento brusco, intenzionale. Tutto è apparso come un universo ingombrante, un bagaglio di offerte convenzionali, già viste, capaci solo di rimandare le une alle altre.
L’opera muraria in pietra, da tecnica costruttiva e linguaggio aulico condiviso, ha cessato così – quasi d’un colpo – il suo ruolo, il suo servizio; è sembrata estranea all’architettura contemporanea, al pari della costruzione in laterizio.
Fortunatamente oggi è possibile notare – a fronte di un’evidente stanchezza soprattutto della cultura architettonica contemporanea che ha puntato tutto sui materiali artificiali, sulle tecnologie fortemente innovative – numerosi architetti che ritornano a prendere in considerazione i lasciti di questo statuto costruttivo. Il loro sforzo è chiaramente rivolto a fornire contributi individuali ma questi, valutati nell’insieme, ci parlano di una nuova possibile stagione – o quantomeno della “sopravvivenza” – dell’opera muraria posta al servizio del progetto contemporaneo.
Assumendo una certa distanza rispetto all’architettura omologata dell’oggi ci ha intrigato di rintracciare e ricollegare fra loro le esperienze recenti all’uso di una muralità di pietra; in particolare ci ha interessato “saggiare” e studiare i modi attraverso cui la contemporaneità ha declinato architettonicamente un tema costruttivo lungamente disatteso.
Ci siamo dati il compito di svolgere una lettura in qualche modo riunificante di tali esperienze saldando le une alle altre e, tutte insieme, all’esperienza storica precedente. Alle spalle abbiamo indubbiamente un passato con un orizzonte architettonico vasto, articolato e saturo di declinazioni, di temi compositivi e spaziali esperiti. La possibilità di mettere a confronto, di saldare le attuali riproposizioni dell’opera muraria rispetto ad una tradizione, ad un linguaggio in qualche modo consolidato e riconosciuto ci sembra un evento per certi versi salutare rispetto alla prassi più ricorrente dell’architettura contemporanea dove l’individualismo e la ricerca dell’innovazione fine a se stessa ha condotto spesso ad una indecifrabilità, ad una solitudine – nei casi migliori – anche delle opere più riuscite.


Museo della Pietra (1996-2000) a Tochigi di Kengo Kuma

Se oggi ritorniamo di nuovo ad avvicinarci alle regole, agli statuti consolidati, alle convenzioni costruttive sedimentate nei diversi contesti geografici, evocando l’esperienza dell’opera muraria più o meno remota, questo non vuol dire rinunciare ad una linea di ricerca, di aggiornamento, di attualizzazione del linguaggio dell’architettura di pietra.
La tradizione si offre ai nostri occhi come orizzonte intellegibile di riflessione che ci “ammonisce”, ci “frena” indubbiamente per certi versi, ci fa crescere facendoci vedere com’è stata, come potrebbe essere ancora riproposta l’opera muraria in pietra. Lo sguardo all’indietro allora assume il ruolo di confronto affinché il lavoro del presente possa mostrarsi all’altezza di quello di ieri; non già per cercare rifugio, consolazione nel passato.
La tradizione – sull’insegnamento di Giorgio Grassi – com’eredità pratica operativa da cui partire per far evolvere il lavoro progettuale in direzione dei problemi, delle aspettative, delle sensibilità dell’oggi. L’ipotesi di una riconsiderazione del muro quale elemento di progetto non deve impedire di valutare come le permanenze, l’Antico, siano esperienze trascorse. Della lunghissima tradizione storica è fondamentale il senso del materiale, la concezione architettonica di fondo (solida, corposa, stabile, duratura), i suoi insegnamenti pratici piuttosto che i tratti formali o stilistici.
Un ascolto proteso a cogliere l’estesa gamma di potenzialità della pietra, la sua virtualità d’uso indirizzabili verso inedite ipotesi applicative, al fine di far emergere nuove ipotesi, risultati inaspettati.
Il tentativo di far arretrare lo sguardo verso il passato, dal punto di vista pratico può voler dire ricondurre ad un grado zero la costruzione stessa rivalutando l’architettura attraverso i suoi dati eterni: gli elementi e gli archetipi fondamentali, gli assetti compositivi, Vorremmo, in questa direzione di riflessione, ritornare ai valori delle figure murarie, dello spazio, dei volumi primari della composizione architettonica.
Un’architettura, in altri termini, che ritorni a confrontarsi con le esigenze essenziali, cercando di dare risposte adeguate (che poi sono quelle di sempre) attraverso opere destinate a durare, a parlare a più di una generazione. E’ frustante notare oggi quanto assai poco conti, nella pratica realizzativa, la buona esecuzione, l’evidenza e la semplicità dei mezzi (cioè l’importanza del sapere costruttivo, della realizzazione a regola d’arte) in vista di un risultato compiuto, risolto con chiarezza.
Questo, certo, non illudendoci che la tradizione dell’opera muraria in pietra possa essere riproposta in forma generalizzata quale tecnica “redentiva” ma ritenendo, quantomeno, che sia da tenere presente in certe occasioni, in specifici contesti territoriali, dove esista la possibilità di far riemergere dal suolo con dignità un materiale che sicuramente può continuare a dar un suo contributo significativo all’architettura contemporanea.

Alfonso Acocella

Note:
* Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Giorgio Grassi, “Questioni di progettazione”(1983) p. 226 in Giorgio Grassi. Scritti scelti, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 403.
2 “All’inizio le dimensioni erano la caverna stessa e la terra. Il pavimento aveva lo spessore della terra e i muri della caverna si rompevano dove iniziava il mare. Quando la nostra visione del mondo comprendeva l’infinito, nessuna dimensione della realtà era definita. L’unico confine, l’unica cosa che ci ancorava saldamente all’universo era l’animale ucciso davanti all’antro della caverna. E la carogna di quell’animale veniva fatta risorgere sulle pareti della caverna. Si cercava una dimora nella dimora dell’animale.
Non so quanti anni siano passati prima che, di fronte all’antro della caverna, nascesse la dimensione “autonoma” (…) la pietra, forgiata in un volume rettangolare. Altezza. Lunghezza. Larghezza. Quanto deve essere stato oscuro il lavoro di creazione in questa limitata quantità malleabile! La più grande manifestazione poetica in forma definita. La prima sicurezza, il primo segno impresso nel paesaggio, segretamente riposto nella rozza pietra squadrata.” Sverre Fehn, “Come sono nate le nostre dimensioni (ed. or. “How our Dimensions are Born”, 1992), Area n.46, 1999, p.2.

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