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4 Maggio 2006

Appunti di viaggio

In visita al Folk Art Museum di Williams e Tsien a New York


Folk Art Museum e Moma (foto Alberto Ferraresi)

Al battesimo con la metropoli americana, non avrei immaginato, pianificando il viaggio, come uno dei più forti ricordi di Manhattan sarebberimasto legato ad un edificio piccolo, al margine del Moma, rivestito di materiali non lucidi, non trasparenti, non particolarmente riflettenti ed in definitiva non partecipanti al fragore di luce tipico del centro nevralgico newyorkese.
L’American Folk Art Museum della coppia associata di architetti Tod Williams e Billie Tsien si chiama fuori dal circolo di realizzazioni di maggior clamore spettacolare della città. Lo fa però in modo sottile e senza intento polemico, scegliendo non tanto il contrasto forzato – via pur facile dato il ruolo obbligato di estensione naturale del fratello maggiore Moma adiacente – quanto la citazione d’approccio di altro museo fondamentale per la città, quale il Whitney di Marcel Breuer a poca distanza. Tra i due la voluta parentela è segnata specialmente, oltre ai volumi dimensionalmente paragonabili, dalla scelta dell’articolazione tridimensionale di facciata principale – da cui anche discende la strategia di illuminazione diurna interna – e dall’opzione monomaterica sempre presentata in facciata principale.


Il Whitney Museum (foto Alberto Ferraresi)

Alcuni argomenti
Riguardo il dibattito sui temi litici, credo questo progetto possa contribuire in tre modi.
Con il primo si ritorna al fronte strada, realizzato con una tecnologia a struttura e rivestimento e con una finitura, in pannelli di spessore dialcuni centimetri, rassomigliante ad alcune superfici di pietra bruna cangiante ai raggi solari delle diverse ore diurne, ma in realtà frutto della maestria artigianale applicata alle lavorazioni del bronzo. La natura del rivestimento adottato è in altre parole metallica, a richiamare sì visivamente la pietra e la sua capacità di caratterizzazione dell’architettura pubblica, ma a riportare sul fronte il frutto del fare artigianale cui il piccolo museo è vocato. Allora forse la scelta progettuale, interpretando la mission dello spazio espositivo, è delle più corrette per le finalità espressive e comunicative, mentre la rassomiglianza litica (in cui per altro si incorre maggiormente, occorre precisare, solo nelle occasioni di minor luminosità), rischia di essere proposta di contenuti molto sottile da trasmettere.
Il secondo argomento porta alla visita degli spazi interni, composti con grande piacevolezza e vivacità distributiva pur nell’estensione limitata dei pochi piani sovrapposti. La scelta, all’opposto della veste esteriore, è per la commistione controllata di più materiali distinti senza prevalenze evidenti. Entro questo scenario non smettono però di permanere fissi alcuni assunti tanto efficaci quanto lineari e didattici per chi si occupi di progetto architettonico, quale ad esempio la preferenza accordata alla materia litica, nello specifico alla Pietra Piacentina, soprattutto ai piani di scavo – l’interrato – e di quelli di generale maggiore vicinanza al livello di terra, così da risolverli con il richiamo di sempre allo schema base-fusto-coronamento dei progetti in elevazione. Salendo, le intromissioni trasparenti in cristallo, gli intonaci e le finiture variamente metalliche stemperano il basamento solido d’inizio obbligato di percorso.
Per terzo non ritengo possibile non accennare ad un breve scritto scoperto poco prima della partenza e disponibile in rete entro le pagine del Folk Art Museum in cui specifico spazio è dedicato ai due architetti ed al progetto dell’edificio, per altro vincitore di numerosi premi e riconoscimenti internazionali. Si tratta di un elenco delle principali linee guida adottate dai due progettisti circa i materiali utilizzati. Ben inteso: niente che esuli forse dalla normale prassi della progettazione architettonica, ma probabilmente e finalmente la prova scritta dell’attenzione motivata ad ogni applicazione materica; attenzione apparsa encomiabile (magari anche perchè generalmente poco praticata oppure solitamente poco trasmessa), indipendentemente dalla vicinanza od al contrario dalla distanza con cui ciascuno possa osservare le posizioni di Williams e Tsien rispetto alla propria sensibilità.


Il rivestimento in tombasil sul fronte principale (foto Alberto Ferraresi)

Parallelamente al testo cui si rimanda, anche si propone concretamente quella del Folk Art Museum come possibile strategia di leggerezza cara al disegno contemporaneo, ottenuta qui per accostamento di molteplici finiture raccolte in articolato sistema, pur quando singolarmente legate, viceversa, a connotazioni di pesantezza.
A chi interessi questo tipo di proposta basata sulla regia di più materiali, o più l’opera generale dei due architetti – il cui studio è a pochi passi dal museo, al 222 di Central Park South – dal link tra queste righe è possibile accedere al sito ufficiale. Interessante pare essere inoltre il progetto di ville con paramenti in grandi pannelli di granito brasiliano, pure pubblicato da Casabella in occasioni recenti.
fg190
di Alberto Ferraresi

(Vai al sito diAmerican Folk Art Museum)
(Vai alle linee guida delle scelte materiche)
(Vai al sito di Tod Williams e Billie Tsien)

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Mimmo Paladino, una piazza per Leonardo


Piazza a Vinci di Mimmo Paladino

È stata recentemente inaugurata a Vinci la piazza dei Guidi, ridisegnata da Mimmo Paladino in collaborazione con l’architetto Nicola Fiorillo. Il nuovo spazio urbano “Una piazza per Leonardo” segna di fatto l’accesso al Museo Leonardiano e ha dato vita a un’inedita ed autonoma scenografia in grado di dialogare simbolicamente con l’eredità leonardiana.

Alcuni eventi in programma per conoscere l’intervento:

Un’opera, una storia
Mimmo Paladino-Una piazza per Leonardo

4 maggio 2006, ore 15,00
Vinci – Palazzina Uzielli (Sala Didattica)

Nell’ambito della campagna Amico Museo promossa dalla Regione Toscana, la conferenza a cura di Romano Nanni illustra il nuovo spazio urbano di piazza dei Guidi in Vinci.

Vinci Una piazza per Leonardo Mimmo Paladino
fotografie di Aurelio Amendola

13 maggio – 25 giugno 2006
Firenze – Galleria “Via Larga” (via Cavour, 7/r)

Aurelio Amendola, fotografo d’arte tra i più affermati in Italia, ha letto ed interpretato con la fotocamera la piazza ideata da Mimmo Paladino per Vinci: 20 grandi fotografie, stampate con tecniche speciali, leggono le sculture, le architetture, le fughe prospettiche, i mosaici argentati e i continui mutamenti d’aspetto della pietra di cardoso utilizzata per il nuovo spazio che, nel centro storico cittadino, ridisegna l’accesso al Museo Leonardiano. Oltre ad alcuni ritratti fotografici di Mimmo Paladino eseguiti da Aurelio Amendola nel corso degli anni, la mostra espone anche i bozzetti preparatori dell’artista e i disegni relativi allo sviluppo architettonico della piazza di Nicola Fiorillo.
orario: tutti i giorni ore 11.00-19.00, escluso il lunedì
inaugurazione: 12 maggio, ore 17.30
Palazzo Medici Riccardi – Sala Nicola Pistelli

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30 Aprile 2006

Eventi

Laboratorioitalia 2006

6 maggio – 4 giugno 2006
Roma, Ex Casa di Correzione del San Michele, Sala Clementina
Inaugurazione 5 maggio 2006 ore 17,30

Promossa da AId’A-Agenzia Italiana d’Architettura, Federico Motta Editore e In/Arch Istituto Nazionale di Architettura d’intesa con la DARC-Direzione generale per l’architettura e l ‘arte contemporanee e con la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Roma, vuole essere punto di vista sullo stato dell’architettura italiana.
La mostra è curata da Giovanni Leoni, Giorgio Goffi, Carlo Quintelli e Carlo Terpolilli e nasce da due progetti di studio distinti: una riflessione sullo stato dell’architettura contemporanea in Italia, e una ricerca sugli architetti stranieri attivi in territorio italiano.
Nel progressivo sviluppo di queste due iniziative si è fatta strada l’idea di realizzare un’esposizione che offrisse una panoramica generale sull’architettura di qualità in Italia a prescindere dalla nazionalità dei progettisti.
Ne scaturisce un interessante percorso sui mutamenti dell’architettura contemporanea e sulle sue nuove esigenze. Un’indagine che fa il punto sull’attività progettuale e costruttiva nel panorama architettonico italiano, ma anche un viaggio virtuale nel nostro paese per scoprire e conoscere le numerose opere architettoniche realizzate da architetti stranieri fin dagli inizi del XX secolo.
Completano la mostra una serie di postazioni multimediali e tre istallazioni video, realizzate dal portale internazionale di architettura www.floornature.com, in cui architetti italiani e stranieri illustrano le proprie esperienze lavorative in Italia. Un minisito, interno al portale, raccoglierà poi tutto il materiale esposto, le video interviste, gli approfondimenti e i link ai siti degli architetti che hanno partecipato, andando a costituire un’importante risorsa per la promozione e la conoscenza dell’architettura italiana nel modo.
Accompagnano l’esposizione tre numeri speciali della rivista "d’Architettura" che approfondiscono i temi affrontati dalle sezioni della mostra
E’ possibile visitare la mostra presso gli spazi della Sala Clementina in via San Michele 25 a Roma, dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18 – chiuso il lunedì, l’ingresso è libero.

Sezioni della mostra

Prima sezione – Genealogie.
A cura di Lamberto Amistadi e Domenico Chizzoniti.
La sezione Genealogie si interroga sul tema, oggi particolarmente delicato, della trasmissione del sapere progettuale. Ad alcuni architetti che per lungo tempo hanno affiancato alla loro attività progettuale anche una azione di insegnamento nella scuola e negli studi (A. Anselmi, C. Aymonino, G. Canella, P. Culotta, A. Isola, V. Gregotti, A. Monestiroli, A. Natalini, N. Pagliara, G. Polesello, P. Portoghesi, F. Purini, L. Semerani, F. Venezia, D. Vitale) è stato chiesto di indicare un gruppo di architetti più giovani, possibilmente di diverse generazioni, con cui ritengono di avere affinità e legami. Un gesto di riconoscimento, da ognuno motivato secondo le proprie ragioni. Ai più giovani architetti così individuati è stato poi chiesto di presentare alcuni aspetti della propria ricerca, con progetti e brevi interventi teorici incentrati su quattro parole chiave: "formazione", "insegnamento", "apprendistato", "professione".

Seconda sezione – Professione e Ricerca.
A cura di Elena Mucelli, Stefania Rössl, Annalisa Trentin.
La seconda sezione è invece dedicata alla professione, termine che giunge ai nostri giorni, in Italia, con una duplice connotazione, negativa e positiva. Positiva in quanto l’architettura italiana del secondo dopoguerra è stata punto di riferimento in ambito europeo proprio per la capacità di esprimere un professionismo tanto efficace nella concreta azione costruttiva quanto colto nelle premesse e nei risvolti teorici. Negativa perchè, in epoche più recenti, il termine "professione" ha troppo spesso voluto indicare una attività di basso profilo culturale, fondata su compromessi, estranea alla più alta ricerca svolta nel chiuso delle accademie. Oggi è certamente in corso una azione di riavvicinamento tra la ricerca progettuale, anche quella condotta nelle università, e la professione, intesa nuovamente come attività colta e insieme realista, pronta a confrontarsi con la complessità delle condizioni necessarie per condurre un progetto alla sua realizzazione senza rinunciare alla qualità architettonica. Anche in questo caso i gruppi invitati sono circa una cinquantina.

Terza sezione – Nuovi Laici.
A cura di Domenico Cogliandro, Gianluca Gelmini, Diego Lama, Raffaella Maddaluno.
La sezione che riserva maggiori novità è certamente la terza, Nuovi Laici, una selezione di quasi cento giovani architetti italiani, organizzati per gruppi su base geografica. L’intento è di indagare una figura emergente di progettista giovane, ricco di esperienze internazionali, colto ma incapace di riconoscersi in una sola lezione o in una sola tendenza, fortemente orientato alla pratica, talvolta impegnato nell’insegnamento ma con disincanto rispetto alla possibilità di una tradizionale carriera accademica. In altri termini, un nuovo soggetto deciso a immergersi nella complessità del progetto contemporaneo, senza schematismi riguardo al proprio ruolo, disposto ad affrontare ogni tema e non solo lo straordinario, intenzionato a ricercare, nella piccola come nella grande occasione, la qualità della architettura. Tutti i gruppi sono presenti con un’opera costruita e con interventi teorici, anche in questo caso organizzati sulle già citate parole chiave.

Quarta sezione – Les Etrangers.
A cura di Giorgio Goffi, Giovanni Leoni e Maurilio Ronchetti.
L’ultima sezione, suddivisa in due tappe distinte, propone al visitatore un viaggio virtuale nel nostro paese per scoprire e conoscere le numerose opere architettoniche realizzate da architetti stranieri fin dagli inizi del XX secolo.
Viaggio in Italia 1900 – 1995. A cura di Nicola Martinoli, Federico Rosa, Eleonora Zucchelli.
Attraverso una selezione di 23 progetti viene proposto un itinerario architettonico nel nostro paese per conoscere le opere realizzate da architetti stranieri dal 1900 al 1995. Tra gli altri i progetti di Le Corbusier (padiglione de "Esprit Nouveau", Bologna); Gerrit Rietveld (padiglione olandese ai giardini della Biennale), Alvar Aalto (chiesa di Santa Maria Assunta a Riola), Oscar Niemeyer (sede del gruppo Mondadori a Segrate).

100. I progetti 1995 – 2005 selezione. A cura di Simona Esposito, Anna Rizzinelli, Federica Mottinelli
Un panorama completo delle esperienze professionali avute in Italia da alcuni architetti di fama internazionale attraverso una selezione di oltre 100 progetti – realizzati o in via di realizzazione – analizzati attraverso schede descrittive, immagini e dati di progetto e scelti per presentare una sorta di mappatura del territorio.

VIDEO
A cura di Flores Zanchi
Realizzati dal portale di architettura internazionale www.Floornature.com tre video di interviste, dando voce agli architetti in mostra, completano l’osservatorio sull’architettura italiana di Laboratorio Italia.

Maestri
Il video inverte il punto di vista della sezione Genealogie dando la parola ai 15 caposcuola che raccontano la propria esperienza nell’insegnamento e nella trasmissione del sapere architettonico.

10 architetti stranieri e l’Italia
Oriol Bohigas, Daniel Libeskind, Richard Meier, Grafton Architects, Vázquez Consuegra, Odile Decq, Boris Podrecca, Richard Rogers, Nichoilas Grimshaw raccontano le loro esperienze progettuali in Italia analizzando pregi e difetti dell’architettura italiana.

Parola d’architetto. Viaggio nell’architettura italiana
Gli architetti italiani in mostra si raccontano attraverso una serie di riflessioni sul fare architettura in Italia. Pensieri, non privi di autocritica, che spaziano dall’analisi delle opportunità di costruire a quelle fornite dallo strumento concorsuale, passando per lo spinoso tema delle frequenti incursioni dei progettisit stranieri nel nostro paese.

(Per scaricare l’elenco degli Architetti che parteciperanno clicca qui)

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26 Aprile 2006

Eventi

Corso di alta specializzazione


Stone Museum (foto Archivio Kengo Kuma)

Corso di Alta Specializzazione
Mantova, 26 aprile – 30 giugno 2006

Dal 26 aprile 2006 al Politecnico di Milano Polo Regionale di Mantova in collaborazione con l’Ente Fiera di Verona, ed il settore Marmomacc, si terrà per il primo anno il corso di Alta Specializzazione dal titolo “Progettazione Contemporanea con la pietra”, rivolto agli studenti iscritti al corso di laurea in scienze dell’architettura e alle lauree specialistiche.
Si tratta del primo corso in Italia, rivolto a studenti, dove il tema del prodotto lapideo viene trattato non dal punto di vista meramente tecnologico ma progettuale, con quindi tutte le implicazioni espressive, compositive e formali che ne conseguono.
Il corso, di 60 ore (4 cfu) si propone di attivare una riflessione
interdisciplinare finalizzata all’approfondimento dei temi della
Progettazione Architettonica e della Tecnica costruttiva storica, moderna e contemporanea, fornendo ai partecipanti una preparazione specialistica superiore nell’ambito dei temi della progettazione con la pietra, da intendersi come basi per un principio progettuale che parta dall’uso del materiale per arrivare alla realizzazione che diventi immagine dell’idea progettuale.
Le tematiche saranno sviluppate nell’ambito di lezioni ex-cattedra ed incontri seminariali, workshop in aziende e visite ad architetture.

Per informazioni ed iscrizioni www.polo-mantova.polimi.it
Segreteria del Polo Regionale di Mantova tel. 0376/317001-31
Coordinatore arch. Massimiliano Caviasca

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21 Aprile 2006

Pietre Artificiali

Trasparente / Traslucido


LiTraCon, calcestruzzo traslucido

Si parla sempre più spesso di "superficializzazione" dell’esperienza, di perdita dello spessore fisico in favore dell’informazione, della bidimensionalità e, mentre diventa rilevante l’uso di un vocabolario che cerca di condurre "oltre" le potenzialità della materia (immateriale, de-materializzato, ultra-materiale, smaterializzato…), l’interesse per la sostanza delle cose si rinnova e nell’ambiente artificiale, componenti e oggetti che per la loro stessa ragion d’essere non possono fare a meno della terza dimensione, sembrano mutare natura.
Il panorama delle variazioni nella produzione di materiali per l’architettura si fa ricco, non univoco, aperto a molteplici indirizzi e talvolta combinazioni di proprietà contraddittorie. Non solo sottigliezza, leggerezza, flessibilità, ma anche numerose ricerche volte allo scenario della "trasparenza".
È comune immaginare che solidità e massa consentano la permanenza nel tempo e quando si pensa la materia come forte del peso proprio, si è soliti immaginarla come "opaca". Quando la ricerca è indirizzata alla leggerezza ed all’estremo assottigliamento, abbiamo incontrato pietre naturali o composite, diafane e sottili fino a consentire di vedere loro attraverso. Difficile, invece, combinare mentalmente l’idea di solidità e pesantezza alla condizione di traslucenza, la magia della penetrabilità della luce. Uso massivo della materia e trasparenza sono sempre stati valori disgiunti; lavorare con la trasparenza solitamente rende necessaria l’azione dell’"appendere" e quindi aggiungere collegamenti e agganci alla costruzione.
Negli ultimi anni viene sviluppata l’idea di avere queste proprietà in un unico materiale: un conglomerato cementizio trasparente.
Come il vetro ormai non più solo trasparente ma anche opaco, non più fragile ma anche strutturale, così il calcestruzzo può divenire semitrasparente, rimanendo "pietra artificiale" affine alla materia litica per la sua massa agglomerata e profonda, ma stupefacente per ciò che va a generarsi sulla sua superficie.
Le sperimentazioni per realizzare un materiale conglomerato che consenta l’uso massivo ed al contempo trasmetta la luce, sono avviate per opera di due ricercatori-architetti in luoghi lontani e distinti.
Bill Price, architetto texano ricercatore presso l’Università di Houston, Áron Losonczi architetto ungherese, lavorano entrambi, autonomamente, al medesimo tema e immaginano di realizzare un giorno intere pareti e facciate con un materiale strutturale al contempo trasparente, nel quale si incontrino prestazioni ed espressività.

L’idea di Bill Price nasce da una visione. Guardando lo scheletro in cemento armato di un edificio in costruzione e la luce della città attraversarlo come un setaccio, ha visualizzato così il progetto: l’immagine rovescia, dove i vuoti si fanno solidi ed il calcestruzzo lascia penetrare la luce. Il sogno ha pervaso la scena sino a promettersi di trasformare la natura degli edifici con un materiale antico, aggiornato, rinnovato.
L’architetto texano ha lavorato a lungo in Olanda presso Rem Koolhaas, respirando l’interessamento per l’innovazione e la comunicazione nell’architettura attraverso l’immagine ed i materiali; le opere ed i grafismi dell’architetto olandese sono impregnate di prefigurazioni alla trasparenza.
Price non pubblicizza la sua ricerca e porta avanti la sperimentazione. Cerca il mix adeguato alla composizione di un calcestruzzo traslucido che possa essere plasmato nella forma desiderata, realizzando una serie di prodotti – oggetti per il design, tavoli, lampade, tubi, come anche blocchi, mattoni, lastre, pilastri – benchè l’applicazione su ampia scala necessiti ancora anni di sperimentazioni.
Il campione tipo è già in produzione: aggiungendo fibre di vetro o di plastica alla miscela del calcestruzzo, il 5% del volume del materiale prodotto può condurre la luce. Il "Pixel Panels" che Bill Price realizza è di venticinque per cinquanta centimetri, con resistenza a compressione pari a quella del cemento standard, suo opaco progenitore. Il calcestruzzo translucido per diventare competitivo sul mercato, dovrà poter essere gettato in opera, sopportare carichi, isolare e durare tanto quanto un calcestruzzo tradizionale e le valutazioni riguardo il mantenere in essere delle sue caratteristiche principali per il momento sono in continuo approfondimento tecnologico.
Price mantiene metodicamente sotto analisi il ciclo produttivo analizzando quali fasi del processo tradizionale possano essere mantenute inalterate, quali componenti invece modificate per permettere il passaggio della luce – leganti, aggregati, additivi, rinforzi, casseforme. È prevista la sostituzione degli inerti con frammenti di vetro, l’utilizzo di leganti plastici, l’adozione di armature in kevlar fino all’utilizzo di casseforme con micro fori. La quantità di luce che attraversa i pannelli è determinata dalla diversificata modifica dei rapporti percentuali tra le componenti o dalla variazione progressiva di uno degli elementi del ciclo produttivo. L’iterazione degli esperimenti comporta la prova e la verifica del risultato.


Fibre ottiche per il LiTracon (foto Domus 875, 2004)
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Dall’altro lato Áron Losonczi, laureato a Budapest e dottore di ricerca a Stoccolma, nel 2001 mette a punto artigianalmente e brevetta il LiTraCon, scegliendo di portare avanti l’idea nel laboratorio della sua piccola Csongràd.
Anche se nella zona è ancora opinione comune che sia una materia grigia e severa, "noiosa" e di poco valore, da nascondere piuttosto che valorizzare esteticamente, ogni due anni Csongràd ospita un workshop sul calcestruzzo a cui partecipano architetti e artisti da tutto il mondo. Il calcestruzzo è dunque materiale che conosce intimamente. Osservando poi una scultura dell’artista rumeno Varga St. Luigi, un blocco di calcestruzzo trapassato da lastre di vetro, l’immagine che combinava opacità e lucentezza, ha cominciato a pulsare nella sua mente fino a divenire, filtrata e assorbita dalle sue conoscenze, "progetto".
Light Trasmitting Concrete è un conglomerato che può fungere da conduttore della luce perchè ingloba fibre ottiche Schott nella percentuale dal 3 al 4%. La luce, sia naturale che artificiale, attraversa il blocco indipendentemente dallo spessore, illuminandolo; le ombre vengono trasmesse e sulla superficie si delinea il profilo degli oggetti post-posti. I primi campioni realizzati in forma di blocchetti, come testimoniano le prove di laboratorio, conservano le medesime caratteristiche del conglomerato cementizio ordinario. Áron Losonczi assicura che il mix di componenti può essere regolato a seconda delle esigenze e adattato ad hoc per lo specifico progetto. Al momento le fibre ottiche sono disponibili in vetro ed in plastica, nei diametri che oscillano dai 30 ai 100 micrometri per quelle di vetro, dai 0,5 ai 2,5 millimetri per quelle di plastica, capaci di trasmettere meglio i colori.
Il costo di produzione tuttavia è alto, i tempi di produzione sono elevati e gli elementi attualmente in produzione hanno spessore ancora ridotto. Difficile forse che divenga un prodotto standardizzato di massa e su larga scala, quanto piuttosto è più probabile che imparando ad utilizzarlo, essendo flessibile nella produzione, si adatti di volta in volta a soddisfare diversi modelli di trasparenza richiesti dai progettisti. E certamente l’interesse non manca: Steven Holl, Herzog & De Meuron, Zaha Hadid, Jean Nouvel, Ron Arad hanno già chiesto informazioni per questa nuova pietra liquida e fantascientifica.

Veronica Dal Buono

Riferimenti Bibliografici:
ARMAN Beatriz, POLI Matteo, "Aron Losonczi. Transparent Concrete", p. 40-50, in Domus, n. 875, 2004.
LEFTERI Chris, La ceramica. Materiali per un design di ispirazione, Modena, Logos, 2005, pp. 160.
ZIJLSTRA Els (a cura di), Material Skills, Rotterdam, Materia, 2005, pp. 168.

Link
www.nbm.org/liquid_stone/home.html
La mostra "Liquid Stone" tenutasi a Washington presenta i lavori sul calcestruzzo trasparente nella sezione "Future of Concrete".
www.litracon.hu
Sito ufficiale di LiTraCon di Aron Losonczi, aggiornato con frequenza. Contiene informazioni sulla produzione, realizzazioni, contatti, esibizioni, eventi, pubblicazioni, riferimenti e contatti.
www.materia.nl
Il LiTraCon è documentato nel data-base on-line della materioteca olandese curata da Els Zijlstra.

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Una costruzione in pietra a Baja Sardinia*


Uno scatto dell’interno del night club Ritual in Gallura (foto Mario Ciampi)

l titolo della tesi di laurea di Andrea Francesco Fiore, postuma rispetto alla grande parte dell’edificio, introduce alla visita virtuale della realizzazione per un night club nel nord della Sardegna. L’eccezionalità, oltre ai molteplici fattori di unicità di luogo e tempi d’ogni opera di architettura, risiede nella suggestione naturale intatta post-intervento, nella sensibilità interpretativa volta all’intromissione silenziosa dei completamenti edili, nella tenuta complessiva sia formale sia materica a più di trentacinque anni dalla posa della prima pietra.

Olivastri, lentischi, graniti e mirti
Frutto dell’intuizione architettonica di Andrea Fiore, poi proprietario, alla fine degli anni ’60, l’edificio si propone da subito come tipologicamente innovativo non solo nell’adeguamento alle peculiarità della roccia, ma anche nel ripensamento delle collocazioni degli spazi funzionali al night club rispetto a quanto consuetamente praticato fino ad allora, specialmente riguardo il posizionamento ed i rapporti reciproci di sorgenti sonore, del personale interagente con il pubblico e dei fruitori della sala da ballo: consolle e strumentazioni di riproduzione musicale prima solo si avvicinano, poi finalmente si insinuano tra il pubblico.
Gli anni di concretizzazione dell’idea originaria e di realizzazione del locale coincidono con quelli di nascita ufficiale della Costa Smeralda parallela, a pochi chilometri. Gli eletti da Aga Khan nel 1962 a tenere a battesimo il vero e proprio Consorzio Costa Smeralda ed a sovrintenderne la trasformazione territoriale ancor prima che architettonica sono i progettisti Michele Busiri Vici assieme soprattutto a Luigi Vietti ed al francese Jacques Couëlle. Quest’ultimo particolarmente pare essere riferimento citazionale di Fiore, per l’approccio geomorfico caratterizzante la sua ricerca già dalla metà del secolo e per l’atteggiamento artistico-interpretativo d’avvicinamento alla natura dei luoghi.
In forma di parentesi occorre per altro precisare come alla luce dei successivi quarant’anni di costruzione lungo la costa affacciante in direzione di Corsica, l’impronta di Vietti e Couëlle ha segnato una traccia cui poter ricondurre opere altre, mentre invece interventi pur importanti di progettisti di talento indiscusso in questa sede – tra cui Marco Zanuso, Cini Boeri, Umberto Riva ed altri ancora – hanno preferito misurarsi con la reinterpretazione del portato tipologico tradizionale degli stazzi sardi – i complessi d’abitazione rurale tipici – ma approdando ad esiti dal valore puntuale e non generalizzabile.


Uno stralcio della Domenica del Corriere n° 33 del 1974

Ciò che per i più costituisce episodio di costume variamente etichettabile, per l’autore e progettista è anche ricerca intima di personale verità. La riconduzione ai saperi autoctoni non avviene in questo caso, come detto, per allusioni alle tipologie edilizie rurali consolidate, ma piuttosto per citazione simbolica di elementi di tradizione millenaria quali le incisioni rupestri della Tomba del Labirinto a Benetutti presso Luzzanas in provincia di Sassari. Nel fare questo, per altro, il progettista indaga un filone da sempre di personale interesse, come testimoniato anche dalle ricerche sulle simbologie iconografiche e geometriche della chiesa parmigiana di San Francesco del Prato1. Ebbene dalle rappresentazioni primitive del labirinto circolare di Benetutti discendono per successivi passaggi alcune delle soluzioni distributive dell’odierno locale, da cui anche trasporre in ideogramma le metafore grafiche utili, nelle varie forme della comunicazione ai fruitori, agli usi attuali. Pure gli insediamenti nuragici più complessi si candidano inoltre ad obiettivo allusivo dell’articolata planimetria dell’edificio.
Il Club si sviluppa in parte al coperto entro superfici dischiuse nel ventre roccioso dei rialzi di terreno a ridosso della costa gallurese ed in parte all’aperto: qui solo i giardini pensili disposti alle diverse quote offerte dal terreno si intromettono nella visuale di fondo uniformemente litico ed assumente differenti cromie alle diverse condizioni di irraggiamento solare. Olivastri, lentischi, graniti e mirti sono gli ingredienti dosati con misura pressochè naturale ai vari livelli dei dorsi rocciosi su cui le planimetrie di progetto si distendono.
Il granito, materia notoriamente generosa in rapporto al lavorìo del vento, reca nel proprio nome la caratteristica sensoriale epidermica di chi lo sottoponga alla prova tattile: l’etimo deriva infatti dal latino granum, vale a dire grano, con riferimento e per via della rugosità superficiale. Offre tonalità cromatiche varie – e variamente localizzate nelle cave dell’isola – dal grigio chiaro al rosa, al solito concedendo minime variabilità entro la tonalità dominante. Riguardo l’intervento di Baja Sardinia di fine anni ’60 ed ora integrato con opere di estensione e completamento del locale, la materia litica si offre nella sua veste più imponente, espressiva ed in definitiva incontaminata. L’idea quasi onirica di partenza risiede nel portare l’uomo ad essere per così dire intruso entro uno spazio a lui estraneo ed allo stesso tempo di renderlo attore inconsapevole a disvelare la scenografia naturale preesistente. Progettualmente il nodo da sciogliere è da subito quello della linea caratteriale di intervento da prescegliere per le minime e pur necessarie integrazioni alla cavea primigenia individuata da Fiore quale sede del futuro esercizio. Pare proprio di poter sostenere, a maggior ragione per le intromissioni negli spazi interni di maggior suggestione e caratterizzazione autoctona, come la via adottata sia quella dell’inserimento silenzioso ed interprete delle spiccate connotazioni naturali del sito: si pensa in particolare alle intromissioni con riquadri in graniglia dalle diverse dominanze cromatiche e pure dai diversi dimensionamenti nella pavimentazione della sala da ballo, in cui si ripropone in chiave personale l’approccio simile a quello già di Couëlle al tema dei piani pavimentali.


Uno scatto delle fasi di primo cantiere (repertorio Orecchioni)
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La photogallery ora si arricchisce di un percorso prezioso di immagini composte da Mario Ciampi. Ripercorrere visivamente i fotogrammi impressi sulla pellicola negativa per la lunghezza consentita da due o probabilmente tre rullini offre l’opportunità di immaginare il breve tempo trascorso, forse un paio di giorni, dal fotografo assieme al progettista, sotto la cui guida comprendere le suggestioni alla base del progetto di Baja Sardinia.
Quasi come terzi passeggeri nell’autovettura, poi come accompagnatori silenziosi a piedi, si visiteranno fuori stagione alcune opere di Jacques Couëlle non lontane dal Porto Vecchio di Porto Cervo, poi l’abitazione personale dell’architetto francese, per raggiungere il locale da ballo anticipato dall’affiorare delle costruzioni di foggia organica in esterno ed esperirne infine gli interni in cui la manomissione è lieve al portato di natura.

di Alberto Ferraresi

(Vai a Ritual.it)

Note
Il ringraziamento particolare è dovuto alla famiglia Fiore per la disponibilità e la condivisione della documentazione iconografica e testuale sul locale notturno in Baja Sardinia (Ss); ancora a Piermario Orecchioni per alcuni scatti di repertorio e a Matteo Lumaca per la preziosa collaborazione alle immagini fotografiche.

(*) La titolazione dell’articolo “Una costruzione in pietra a Baja
Sardinia” richiama direttamente la tesi di laurea in Architettura
sostenuta da Andrea Francesco Fiore ed avente per oggetto la
realizzazione del night club in Gallura, così come alla stessa tesi si allineano alcuni passi del testo proposto.

1 Paola Marchetti, Andrea Francesco Fiore, “San Francesco del Prato in Parma”, Fondazione Monte di Parma, dicembre 1988.

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13 Aprile 2006

Appunti di viaggio

Pietra e sostenibilità


Panoramica del Parco del Subbetica, provincia di Cordoba
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Tra la provincia di Cordoba e Granada, in Andalusia, sono molto frequenti bacini estrattivi di pietra calcarea di un bel colore bianco, molto ricercata attualmente, dalle notevoli possibilità applicative e di generalmente buona qualità e disponibilità.
Pietra che genericamente viene denominata Calizia Capri, ma che presenta notevoli differenze tra un sito estrattivo e l’altro, sia per venatura e granulometria che per resistenza all’usura e durevolezza.
Ma questo non è che la premessa alla riflessione che questo viaggio di lavoro mi ha sollevato.
Nella fattispecie ho visitato delle cave recentemente chiuse, facenti parte di un territorio naturalistico tutelato, per le quali è stata revocata la concessione, a causa di non precisatemi, ma immaginabili, emergenze ambientali.
Dalla foto n. 1 si evince la spettacolarità del territorio, una distesa di rocce affioranti, che determinano un particolarissimo ambiente naturale semi arido, ricco di una specializzata avifauna, che trova in questo raro contesto un motivo di proliferazione e nutrimento impareggiabile.
Nella foto n.2, 3 e 4, sono evidenti le lacerazioni del territorio che la coltivazione delle cave hanno provocato, senza un benchè minimo tentativo di ripristino del territorio.
Ora mi chiedo se non sia arrivato il momento, in questo nostro spazio interattivo, di pensare alla pietra come ad un bene non rinnovabile, un bene di cui non possiamo ignorare i processi di approvvigionamento, una materia prima che presuppone un prelievo al territorio, consistente ed invasivo.
Le moderne tecniche di coltivazione, i possenti caterpillar, hanno fortunatamente sollevato le fatiche umane nel lavoro di cava; i livelli di sicurezza imposti, almeno per quanto riguarda le cave italiane, sono tali da non compromettere la sicurezza dei lavoratori più che in altri settori.
La sostenibilità nello sfruttamento dei giacimenti litici è sicuramente possibile, non fosse altro perchè la quantità realmente asportata è inferiore a quanto viene movimentato e/o scartato.
Ho visto degli splendidi esempi nell’altopiano di Asiago di ripristino ambientale di ex cave, ma sicuramente delle mosche bianche rispetto agli scempi ecologici che dominano la maggior parte dei siti estrattivi.
Purtroppo il livello e la sensibilità culturale del settore è molto bassa, questi imprenditori che si occupano di cave di pietra si assomigliano in tutto il mondo, il concetto di predazione del territorio li accomuna e supera le barriere geografiche e religiose.
Se il fronte della Domanda, invece, fosse più attento a questi aspetti, potrebbe favorire quelle produzioni che dimostrino di aver assimilato il concetto di sostenibilità della risorsa.
Si è molto parlato di Pietra di Apricena, delle grandi qualità estetiche e prestazionali, del bisogno di promuoverne l’utilizzo, ma le cave, ad Apricena, come sono gestite? Il territorio sta soffrendo della popolarità della pietra locale?
Mi piacerebbe avere qualche informazione in più di una pietra che conosco molto poco.

Un caro saluto
Damiano Steccanella

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Workshop sugli usi del travertino di Rapolano


“Travertino millerighe” della Vaselli Marmi (foto Alfonso Acocella)
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Una settimana a Rapolano
Le aziende del settore del travertino riunite in Consorzio, tre università europee – Firenze, Corso di Laurea in Disegno Industriale; Marsiglia Ecole des Beaux Arts; Tomar, Escuela Politecnica – riunite alla Grancia di Serre di Rapolano (Siena) per un workshop di una settimana nell’intento di verificare il contributo del design al settore; il tutto all’interno del progetto Edtt della Comunità Europea coordinato dal Centro Sperimentale del Mobile e dell’Arredamento. Obiettivo esplicito del lavoro, quello di prefigurare ipotesi alternative di utilizzo del materiale e definire nuove soluzioni formali per impieghi tradizionali.
La prima giornata di lavoro è stata finalizzata ad una presentazione dei contenuti del workshop, delle metodologie di intervento e tempistica e ad una visita alle aziende coinvolte. In particolare nelle cave della Travertino Sant’Andrea si è assistito alla caduta della bancata e l’occasione è stata importante anche per approfondire il tema degli scarti (tipologia, quantità, forme e misure); alle Querciolaie l’attenzione si è soffermata sui processi di lavorazione e su alcune applicazioni nel campo dell’arte; con Vaselli Marmi, infine, l’interesse si è spostato su alcune tipologie di prodotto legate al settore bagno ed accessori con implicazioni relative al mercato.
Il giorno seguente è stato finalizzato a fornire spunti e sollecitazioni in grado di stimolare l’azione progettuale; tale obiettivo è stato ricercato attraverso un convegno, introdotto da Massimo Ruffilli e coordinato da Vincenzo Legnante (Università di Firenze), in cui figure con competenze diverse si sono rapportate al tema della pietra: dallo studioso di materiali lapidei e delle loro applicazioni nel settore dell’edilizia, Alfonso Acocella, docente alla Facoltà di Architettura all’Università di Ferrara; al design, con Piergiorgio Robino di Nucleo Design Solutions, che recentemente ha lavorato proprio per il settore del travertino di Rapolano, a Salvatore Cipolla, artista particolarmente attento alla sperimentazione sulla materia e sulle sue caratteristiche.
L’azione progettuale ha preso le mosse con il lavoro di Fabio Maroncelli che ha operato applicando la ricerca creativa alla definizione di percorsi alternativi di utilizzo del travertino. In particolare sono state applicate tecniche di spostamento creativo, spaesamento, eliminazione (di alcune fasi del processo produttivo), esagerazione, ricerca analogica, aggettivazione, ispirazione numerica, tecnica dei perchè … Questa ricerca, come sempre accade, ha mosso i primi passi con fatica attraverso la richiesta agli studenti dell’espressione di considerazioni libere, articolandosi nell’arco di una giornata; gli studenti sono stati suddivisi in due gruppi di lavoro composti rispettivamente da 5 studenti portoghesi e cinque italiani, cinque francesi e cinque italiani (una scelta dettata anche dalla necessità di facilitare la comunicazione linguistica). Successivamente l’applicazione delle tecniche sopraesposte ha portato alla creazione di pannelli di grandi dimensioni, per un totale di più di 20, in cui venivano espresse le intuizioni. Le idee così rappresentate hanno costituito la base di partenza della discussione che si è sviluppata con i docenti delle scuole coinvolte – oltre a chi scrive, Ilaria Bedeschi, Fabrice Cincin, Fredric Fredout, Mario Barros -; ogni ispirazione è stata dettagliata ed approfondita ancora in un’ottica “di apertura più che di chiusura e limitazione”; alcuni degli scenari sono stati accorpati, fino ad arrivare a venti, uno per ogni studente coinvolto nel workshop che è diventato responsabile della proposta.
Sulle intuizioni si è lavorato per i restanti giorni: stabilito un layout condiviso per la presentazione, ogni studente ha lavorato sul concetto individuato dettagliandolo attraverso indicazioni scritte, documentazione fotografica a livello di case history analoghi, ed arrivando ad ipotizzare alcuni concept di prodotto. Rimandando la progettazione di dettaglio alla fase successiva.
In dettaglio le proposte presentate sono state raggruppate in quattro grandi macrocategorie sulla base di uno schema elaborato “in diretta” da Fabrice Pincin: gli aspetti ludico-educativi (e dunque la possibilità di utilizzare il materiale per la realizzazione di elementi di arredo urbano per l’infanzia); la potenza evocativa della pietra (al di là della funzionalità); la valorizzazione delle caratteristiche fisiche del travertino; l’esaltazione della materia.
In particolare relativamente a “Gioco e non solo”, sono stati prefigurati scenari che riguardano “la pietra che racconta il luogo che la ospita” (dalla scritta travertino da collocare a Rapolano al racconto di particolare funzioni della città); quella che esplicita la propria funzione (la seduta urbana costituita dalla scritta “siediti”, od opera attraverso una traslazione di senso (la scritta “morbido” che diventa oggetto): citazioni palesi della ricerca delle avanguardie – architetture, chioschi ed edicole di Fortunato Depero su tutti, ma con spessori, volumi e matericità della pietra. La potenza evocativa del travertino ha portato a parlare di tempo e memoria: la pietra come continuo divenire in grado di materializzare il trascorso, di rappresentare le età del mondo che può significare lavorare sulla misurazione del tempo (meridiana e calendario), ma anche su texture che riprendono il concetto di stratificazione, e souvenir, ricordo di viaggi passati; ma anche del travertino come pietra in movimento (?) rettilineo (su ruote) o ondulatorio.
In relazione alle “Caratteristiche vecchie e nuove” si è operato sui possibili utilizzi del materiale a livello di confine tra terra e mare – dall’acqua all’acqua, per una sorta di ritorno alle origini – sia essa una battigia costruita con pavimentazioni e sedute e l’acqua che attraverso il gioco alta – bassa marea si riappropria dello spazio costruito, che elementi che assolvono diverse funzioni legate alle attività marittime (con impieghi allo stato grezzo oppure lavorato); fino al “rovescio della città” – “l’en-vert de la ville” – che opera sulla contaminazione tra naturale ed artificiale, tra verde e costruito agendo sui luoghi di confine, reintegrando la città in posti improbabili, liberando la pietra accettandone le sregolatezze – con il travertino che da grezzo diventa lavorato all’interno della stessa struttura (sia essa panchina o elemento naturale di facciata architettonica); e al lavoro sulle possibilità di composizione modulare sia dal punto di vista tridimensionale, la seduta componibile che si fa elemento di decoro urbano e struttura illuminante, che bidimensionale con la proposta di andare al di là della semplice forma rettangolare o quadrata e riferimenti colti all’arte di Escher in una sua forma semplificata.
Mentre per quando contiene la “Valorizzazione della materia” i concetti – chiave sono stati individuati in “Sicurezza” “oggettiva” (con utilizzo di elementi di separazione per steccati, muri di cinta, elementi di separazione); “protettiva” (tetti, tegole in travertino, coperture di spazi così come avviene, ad esempio, per l’ardesia); “soggettiva” con l’ipotesi di una cassaforte in travertino, quasi a recuperare l’istinto primitivo della difesa del territorio; “Psicologica” con ipotesi di utilizzo di parti minute del materiale nel settore della gioielleria; “decorazione”, con l’idea di allontanarsi dalle forme conosciute e tradizionali e comprendere soluzioni a livello di combinazioni modulari da applicare a porte e finestre o nella funzione di filtro della luce – mutuando dalla gelosie in mattoni o dal brise-soleil – ma con una valenza quasi figurativa; la “Travertinoterapia” che si esprime attraverso due strade: “dall’acqua il benessere portatile” (con l’obiettivo di capire se la pietra ha proprietà curative grazie alla sua composizione minerale e di verificare il possibile utilizzo a livello di cosmetica – si pensi a quanto avviene con la pietra pomice) e “dall’acqua all’acqua per il termalismo e non solo” con ipotesi di utilizzo a livello di frantumato per il fondo delle piscine (al posto della ceramica) o in complementi ed arredi per bordo piscina; fino all’ipotesi riassunta in “Mettiamoci una pezza” con la proposta di far diventare il rattoppo del travertino difettato, ottenuto con inserti di altri materiali un elemento decorativo portatore di valore aggiunto.
I venti scenari progettuali sono stati presentati alle aziende a richiedere una dichiarazione di interesse. Sulle proposte valutate come maggiormente promettenti, gli studenti seguiti dai rispettivi docenti, stanno già lavorato con l’idea di rincontrarci per una verifica finale ed esposizione dei lavori, che saranno anche raccolti in un catalogo, nel prossimo mese di giugno.
Per un bilancio è ancora presto ma qualche considerazione può comunque essere fatta.
Dal punto di vista della didattica l’esperienza appare interessante sia sul piano del confronto e contaminazione tra approcci diversi – più metodologico quello francese, più concettuale quello italiano … -, che su quello del ricorso all’approccio della ricerca creativa – non così frequente in campo universitario ma importante per prefigurare scenari di intervento realmente alternativi, che su quello dei tempi – la concentrazione del lavoro su una settimana porta ad una tensione creativa e ad un livello di cooperazione difficilmente raggiungibili …
Sul piano delle ricadute è prematuro esprimersi anche se è stato possibile cogliere nella presentazione finale un interesse per alcune direzioni di ricerca che verranno approfondite nel lavoro dei prossimi mesi. La strada è appena iniziata: per dirla con Giuseppe Cederna: “Anche un viaggio nasce, cresce, invecchia e poi muore. Ma appena nato è già grande. Capace di usare la testa, di farci e disfarci a suo piacimento. Fra un’ora il nostro viaggio, dopo mesi di gestazione, vedrà finalmente la luce. Ci riconoscerà? Assomiglierà un pò anche a noi? Ci vorrà bene. Ci aspettiamo grandi cose da lui.”

Giuseppe Lotti

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Opus incertum


Tempio di Giove Axur a Terracina. Il contesto paesaggistico
(foto Alfonso Acocella)

Opus incertum
“Ancora nel primo ellenismo (…) deve essere stata scoperta nella stessa regione e, più precisamente nel golfo greco-sannitico di Napoli, la pozzolana quale materia prima ideale per la realizzazione della vera malta cementizia. Dapprima essa sostituì nei muri di pietre irregolari il più antico riempimento d’argilla; le sue qualità consentirono di fare a meno di allineare e adeguare con molta precisione i singoli blocchi, dal momento che la massa lega e tiene assieme il tutto. Questa fase è attestata da alcuni edifici d’uso del Foro di Paestum costruiti nel primo periodo della colonia romana, certo intorno alla metà del III secolo a. C. Assai presto seguì il passo evolutivo successivo, la scoperta della muratura a sacco. Piccole pietre maneggevoli vengono messe in opera fino a una certa altezza come una doppia cortina e quindi il loro interno viene colmato con una miscela di malta e pietrisco; si prosegue poi con l’erezione di un’altra fascia della cortina e così via. Nel realizzare le cortine, che Vitruvio definisce significativamente “ortostati”, si curava che le commessure delle pietre piccole delineassero sui lati esterni in vista un bel motivo a reticoli, anche se casualmente non sistematico. Era nato l’opus incertum.
Già a partire dal 193 a. C. a Roma fu costruito in questa nuova tecnica il grande magazzino della Porticus Aemilia al porto del Tevere. Non è necessario descrivere qui in dettaglio la sua marcia trionfale in Campania e nel Lazio, che ne fece di fatto la tecnica costruttiva dominante del tardo ellenismo locale. L’opus incertum è solido e impermeabile, con esso si poteva costruire in altezza, velocemente e in grande, tutte caratteristiche che andavano incontro nella maniera migliore alle esigenze dei romani.” (1)
In genere nella letteratura archeologica si è soliti indicare opus incertum quel particolare genere di muratura composita priva di un vero e proprio paramento che mostra in esterno elementi di pietra (caementa), simili a quelli che costituiscono il nucleo interno dell’opera a sacco, dai quali si distinguono unicamente per la faccia più “levigata” e i lati più precisi) in base ad un passo contenuto nel De architectura di Vitruvio (II, 8, I):
“I generi delle strutture murarie sono questi, l’opera reticolare di cui oggi tutti si avvalgono, e quella antica che è detta incerta. Di queste più attraente è il reticolato, ma perciò predisposto al verificarsi di spaccature perchè in tutte le parti presenta letti slegati e giunture. Invece i conci grezzi disposti irregolarmente l’uno sull’altro ma disposti fra loro a embrice forniscono una struttura non avvenente ma più solida della reticolata. Tuttavie entrambe le opere debbono essere costruite con pietre assai piccole, cosicchè i muri riempiti fittamente con malta composta di calce e arena si conservino più a lungo.”
A conclusione del lavoro esecutivo, il paramento a vista dell’opus incertum risulta caratterizzato da un articolato disegno tessiturale formato da molteplici piccoli elementi di pietra si tratta, in buona sostanza, della parte visibile degli elementi lapidei impiegati con la superficie maggiormente regolarizzata lasciata a vista, ammorsati con abbondante malta, quasi a riproporre, in miniatura, l’opera poligonale.
I sassi, gli scapoli, le scaglie di pietra che entrano a far parte dell’opus incertum come elementi costitutivi del paramento (in genere si tratta di calcari duri, differentemente dall’opus reticulatum che impiegherà prevalentemente pietre tenere) presentano una configurazione irregolare in funzione della specifica origine litologica. Le dimensioni delle pietre impiegate variano notevolmente, risultando in genere comprese fra quelle di un pugno e quelle di una testa umana.
A causa della differente forma e pezzatura delle pietre l’opera muraria non adotta una trama geometrica pre-definita; è facile notare come gli elementi litici costitutivi il paramento a vista siano disposti senza preoccuparsi di ottenere una continuità di allineamento nè orizzontale, nè verticale, nè obliqua.
L’esecuzione dell’opus incertum viene effettuata elevando le due cortine esterne contestualmente al nucleo concretizio interno, realizzato – quest’ultimo – con sassi e materiale di recupero più piccolo annegato in una malta liquida a presa più lenta rispetto a quella utilizzata nelle facce a vista della muratura; la sequenza operativa di costruzione prevede la selezione delle pietre di forma poligonale maggiormente marcata prevedendo di lasciarne a vista la faccia complanare; nella posa si ha cura di accostarle con perizia al fine di fare combaciare il più possibile i lati dei diversi elementi del paramento a vista. Spesso sulle pietre si rendono necessari ritocchi a mezzo di colpi di martellina per adattarle a particolari collocazioni o farle combaciare lungo i lati posti in tangenza. Le pietre – ben pulite e prive di depositi terrosi sono bagnate prima della messa in opera al fine di non “bruciare” la malta riducendone significativamente il potere legante.
La forma “sfuggente” delle pietre irregolari richiede, ai fini della stabilità complessiva dell’opera muraria (soprattutto in relazione alle spinte laterali), frequenti spianamenti per ripartire i carichi sull’intera sezione della struttura muraria. A partire dalla prima età imperiale per tali cinture orizzontali già si utilizzeranno elementi piani di laterizio cotto.
Anche nell’opus incertum, al pari di tutte le tipologie di murature, si cerca di evitare – per quanto possibile – gli allineamenti delle commessure sulle verticali.
Nella letteratura tecnica archeologica il perfezionamento estetico dell’opus incertum (ovvero del suo apparecchio a vista) si valuta attraverso avanzamenti registratisi in tre fasi (definite “maniere”) che progressivamente – dal porre in opera i sassi di volume assai eterogenei fra loro così come provenivano dai luoghi di raccolta con il solo accorgimento di collocare a vista la faccia più pareggiata – conducono ad un’azione di accurata selezione e/o “sgrossamento” degli elementi impiegati.
Nella fase intermedia (seconda “maniera”) si preferiscono sassi poliedrici – o eventualmente tondeggianti – abbastanza omogenei fra loro sia per dimensione che per configrazione (scartando, in genere, gli elementi oblunghi) nella ricerca di un paramento a vista sostanzialmente complanare e a giunti sottili di malta.
Nella terza “maniera” – come precisa Giuseppe Lugli – “l’opera incerta è oggetto di una cura particolare, sia nella scelta dei caementa, che debbono essere collocati in facciata, sia nella loro posa in opera. Intonacata o meno, la parete è considerata come un’opera d’arte, per cui il muro viene tirato su a disegno; se il materiale è il calcare, si preferisce la forma tondeggiante dei sassi, se è tufo, quella poligonale; non si mescolano mai, se non per eccezione, materiali diversi. Lo strato di malta intermedia diviene sottile e l’opera cementizia di infarcitura è più uniforme, quantunque trattata in modo diverso da quella del paramento. I caementa che costituiscono questo paramento sono lavorati a parte ed acquistano sempre più la figura di un cono per ammorsarsi meglio con il nucleo interno.” (2)
Come esempi architettonici famosi di questa fase matura tendente a far assumere un valore figurativo/artistico all’opus incertum all’interno di programmi edilizi monumentali possiamo citare le mura urbiche delle città di Cori, Fondi, Terracina o le spettacolari sostruzioni e inviluppi murali di elevazione del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina o il basamento con criptoportico del Tempio di Giove Axur a Terracina.


Tempio di Giove Axur a Terracina (foto Alfonso Acocella)
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Volendo dare una cronologia orientativa di sviluppo dell’opus incertum si può evidenziare come la prima e seconda maniera si distendono lungo circa cento anni dalla fine del III secolo a.C. al 100 a. C., la terza lungo la prima metà del I secolo a.C. (chiaramente ci sono anche sovrapposizioni, permanenze e anticipazioni fra le varie fasi). A partire da tale data l’opus incertum perde, sotto il profilo quantitativo, il primato applicativo all’interno dei programmi pubblici romani a causa dell’introduzione di apparecchiature murarie più “standardizzate” con impiego di elementi più piccoli progressivamente regolarizzati (opus quasi-reticulatum, opus reticulatum); vengono pure sviluppate ed ampiamente diffuse soluzioni miste con impiego integrativo di elementi di laterizio che innervano le strutture murarie formando cinture orizzontali, cerniere angolari verticali, riquadrature delle aperture ecc. sia all’interno dell’opera “incerta” che di quella “reticolata”; soluzioni queste che permarranno fino al tardo impero.
L’opus incertum troverà vasta applicazione soprattutto nelle architetture del territorio tiburtino, ernico e nord-campano a differenza dell’opus reticulatum che, invece, trova fertile campo in Roma, nei territori ricchi di tufo dei colli albani e tuscolani, nelle città e nelle domus di villeggiatura del litorale laziale latino e campano.

Alfonso Acocella

Note
(1) Hans Lauter, “Materiale e tecnica” p.59, in L’architettura dell’Ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, 1986), pp. 296.

(2) Giuseppe Lugli, “Il nome e la struttura dell’opus incertum” p. 449 in La Tecnica edilizia romana, vol. I, Roma, Bardi, 1988 (ed. or. 1957), pp. 742

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Parietes
Parietes è un progetto nato dalla collaborazione intellettuale e materiale di tre aziende che condividono con Susanna Bianchini un’analoga interpretazione della materia ed un preciso percorso di ricerca.
Pietra, calce e legno vengono osservati, studiati e lavorati nel profondo rispetto delle peculiarità naturali e delle spontanee sedimentazioni riscontrabili in natura.
L’approccio interpretativo su cui si fonda il progetto è quello di creare un ambiente nel quale queste materie avviate a diventare materiali dell’architettura non vengano snaturate, ma rivisitate con un’ottica contemporanea che mai si allontani dall’atto contemplativo del “bello”.
Parietes vuole essere una dimostrazione concettuale ed applicativa di come sia realmente possibile superare il mero utilizzo tecnico ed industriale della materia, arrivando ad un livello emozionale profondo ed aderente all’ambiente di paesaggio che ci circonda.
Allontanarsi da un atteggiamento che deforma o addirittura stravolge la materia è denominatore comune d’azione delle tre aziende che desiderano sottolineare lo stile della produzione italiana ed il sapore dell’artigianalità, elementi imprescindibili di ogni serio percorso di ricerca .
Parietes vuole inoltre essere un progetto indirizzato alla sensibilizzazione degli individui verso la materia che, come reale ma spesso dimenticato patrimonio dell’umanità, deve essere conosciuto, tutelato al fine di mantenere la propria dignità.

Il progetto materico ed allestitivo partecipa al circuito dei “fuori salone”, installato ed ospitato all’interno dei Chiostri dell’Umanitaria di Milano, in via San Barnaba 39, per l’intera durata del Salone del Mobile (dal 5 al 10 aprile 2006 ).

Concept Susanna Bianchini
Design Susanna Bianchini
Aziende Palmalisa Zantedeschi, Dilegno, Trombini

È possibile richiedere informazioni :

PALMALISA ZANTEDESCHI s.r.l.
e-mail palmai@tiscalinet.it

TROMBINI s.r.l.
e-mail trombinisrl@virgilio.it

DILEGNO s.s.
e-mail dilegno.mn@libero.it

Susanna Bianchini
e-mail susanna.bia@tiscali.it

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