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5 Gennaio 2010

News

MARMOMACC 2010

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INFORMAZIONI GENERALI
Nuova Data: Da mercoledì 29 settembre a sabato 2 ottobre 2010
Orario d’apertura: orario continuato dalle 9.30 alle 18.00
Luogo: Quartiere Fieristico di Verona
Modalità d’ingresso: Riservato agli operatori del settore a pagamento. Registrazione online obbligatoria
Organizzazione:
VERONAFIERE – Viale del Lavoro 8 37135 Verona IT
Tel. 0039 045 8298111 – Fax: 0039 045 8298221
E mail: marmomacc@veronafiere.it

DATI EDIZIONE 2009:
Superficie totale netta occupata: 76.603 mq
Totale espositori: 1.507 (1.416 diretti + 91 rappresentati)
Totale ESTERO: 733 espositori
– totale espositori esteri diretti: 686
– totale ditte rappresentate estere: 47
Incidenza numero espositori esteri sul totale partecipanti = 48,6%
Incidenza aree espositive estero sul totale mq. assegnati = 33,8%

Provenienza ESPOSITORI ESTERI = 54 Paesi
Afghanistan, Albania, Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Armenia, Austria, Belgio, Brasile, Bulgaria, Canada, Cina, Cipro, Croazia, Egitto, Francia, Germania, Giappone, Giordania, Gran Bretagna, Grecia, India, Indonesia, Iran, Israele, Korea del Sud, Libano, Lussemburgo, Madagascar, Montenegro, Norvegia, Olanda, Oman, Pakistan, Palestina, Polonia, Portogallo, Rep. Ceca, Rep. Dominicana, Russia, San Marino, Siria, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa, Svezia, Svizzera, Taiwan, Tunisia, Turchia, Ungheria, Vietnam, Zimbabwe.

Settori Merceologici:
Marmi, graniti, pietre e design
Agglomerati di marmo
Macchine e attrezzature per il settore lapideo
Macchine e attrezzature da laboratorio
Mezzi di trasporto e di sollevamento
Smaltimento, ecologia e depurazione
Arte funeraria, bronzi artistici
Abrasivi, utensili diamantati, accessori e prodotti chimici per l’industria lapidea
Tecnologie per il recupero dei beni architettonici
IT, software
Stampa specializzata
Enti, associazioni

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4 Gennaio 2010

Letture

Il progetto economico finanziario

progetto_eco

Roberto Gallia
Il progetto economico e finanziario
Edizioni di Legislazione Tecnica
Roma, novembre 2009
Pagine 256 + CD-Rom
Euro 38,00 (ISBN 978 88 6219 069 5)

Il nuovo assetto istituzionale, correntemente definito sotto il nome di «federalismo fiscale», che attribuisce agli Enti territoriali l’autonoma responsabilità di entrata e di spesa, rende ineludibile la necessità/capacità di supportare con valutazioni adeguate le scelte che i governi locali sono chiamati ad assumere nel proprio territorio. Tenendo presente – inoltre – che l’introduzione del federalismo fiscale non costituisce, di per sè, garanzia del corretto utilizzo della spesa pubblica; così come – simmetricamente – il consolidamento di meccanismi idonei a valutare l’efficienza e l’efficacia della spesa pubblica prescinde dall’introduzione del federalismo fiscale.
In questo rinnovato contesto risulta indispensabile che, nelle prestazioni dei servizi di architettura e di ingegneria, le consuete verifiche in merito alla fattibilità tecnica del progetto vengano affiancate con contestuali valutazioni di fattibilità economico-finanziaria, per accertare la sostenibilità della spesa, da parte dell’Amministrazione committente, sia in fase di realizzazione sia in fase di gestione.
Si rende quindi necessario affiancare al tradizionale progetto tecnico uno specifico progetto economico e finanziario, che indichi con precisione i costi da sostenere per la sua realizzazione e gestione, i mezzi finanziari da impiegare in ogni fase del ciclo, i fattori di rischio nella realizzazione.
Questo manuale, che vuole costituire un ausilio in tal senso per tecnici ed amministratori, è diviso in due parti.
Nella prima si intende fornire un quadro di riferimento delle procedure che regolano la programmazione della spesa pubblica su base territoriale, della quale la componente infrastrutture assume una dimensione significativa; procedure che attribuiscono uno specifico ruolo alla valutazione di fattibilità (nelle diverse componenti) per la realizzazione del programma e/o dell’opera.
La seconda parte, dopo aver illustrato le tecniche in uso per valutare la sostenibilità e la fattibilità di un piano e di un progetto, si addentra nello specifico dei contenuti del «progetto economico e finanziario» che, nelle prestazioni dei servizi di architettura e di ingegneria, deve concorrere con il progetto tecnico per sostenere non solo la fattibilità tecnica (del progetto medesimo) ma anche la sua fattibilità economica sia in sede di realizzazione sia nel corso della gestione.
In allegato vengono illustrati due progetti, alla cui redazione ha partecipato l’Autore, proposti quali casi di studio, con l’obiettivo di dimostrare come la consapevole valutazione dei rischi, individuabili nel ciclo di un progetto (esteso all’attuazione e gestione), costituisca un fattore determinante del suo successo o del suo fallimento.

(Vai all’Editore)

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31 Dicembre 2009

Eventi

“Designer in Generale”

Introduzione alla Lectio di Michele De Lucchi 5 novembre 2009, Facoltà di Architettura di Ferrara
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Michele De Lucchi. “Tra eroici muri di legno. Triennale Design Museum.2009

«Per un artista le ricerche di mercato sono ridicole.
Per un designer sono fondamentali.
Se un artista si concentra verso l’interno su una visione del mondo, il designer lo fa verso l’esterno, verso gli altri.
Un artista dipinge un quadro, lo guarda e dice “Non è bello, ma esprime perfettamente la mia visione interiore”.
Il designer dipinge un quadro, lo guarda e poi lo gira verso il pubblico e chiede: “Vi piace? No? Allora lo cambio”
Quando tutto va bene e il designer riesce a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda del pubblico, quello che avviene è un trucco splendido e sorprendente, che ha dato vita alla maggior parte dell’abbondanza che ci circonda»

Sarcastico e un pò impietoso questo passaggio interpretativo del modus operandi dell’artista e del designer che ci viene consegnato da Rich Gold nel suo saggio Le leggi della pienezza. Creare, innovare, produrre cose.
L’artista e il designer sono visti come appartenenti a due mondi separati, due figure antitetiche, opposte, inconciliabili.
L’una rivolta al mondo dell’interiorità, della soggettività, della libertà totale e assoluta di pensiero e di invenzione, l’altra guidata e assoggettata prevalentemente al mercato e alle sue stringenti regole, ai desideri espliciti (o impliciti) del pubblico visto come insieme vasto di fruitori, se non addirittura come di diretti clienti.
Ma poi è proprio vera questa contrapposizione, questa distanza e separatezza nel mondo di oggi? Possiamo affermare che esistono ancora arti liberali?
In una fase storica in cui l’arte stessa si è fatta merce e gli oggetti sono trasformati in simboli il mondo dell’abbondanza dei paesi a sviluppo avanzato è oramai un orizzonte privo di recinti disciplinari, alimentato e accelerato da un continuum fluido di atti creativi, produttivi, di commercio e di consumo; un orizzonte oltretutto attraversato da un flusso di immagini, di messaggi, di narrazioni modellatrici delle soggettività sempre più individualizzate e dei desideri sempre più indotti delle persone.
All’interno di questo quadro epocale, per larghi tratti inedito anche rispetto a quello di qualche lustro fa, il design non si pone più come ambito del solo disegno industriale finalizzato alla produzione di oggetti fisici realizzati dalle aziende manufatturiere, ma come metadisciplina delle idee, della visionarietà, dell’innovazione in senso vasto e generale.
Oggigiorno, solo dopo avere riconosciuto al design l’acquisito statuto di metadisciplina creativa, è possibile declinare al suo interno il design come disciplina professionale rivolta al mondo dell’industria.
Un industria che però, nel presente, si è espansa oltre le pareti delle tradizionali fabbriche legate alla produzione di beni materiali investendo la nuova frontiera della produzione immateriale che caratterizza la new economy fatta di reti di informazioni e di conoscenza, di sistemi finanziari, di funzioni di servizio, di esperienze culturali e di consumo del tempo libero a pagamento.
La figura di Michele De Lucchi ci sembra che incarni perfettamente questa valenza multiforme di designer che approda con disinvoltura e naturalezza alla inedita condizione di avvio di terzo millennio con quel suo muoversi agile e fluido dall’ambito prettamente intellettuale, artistico, creativo, comunicativo fino a quello del design inteso come mestiere, come professione.
Qui indirizza la sua attività al disegno di prodotti in serie per l’industria con l’obiettivo di innalzare la qualità della vita degli utilizzatori e allo stesso tempo di generare profitto e sviluppo economico, fattori irrinunciabili questi ultimi per mantenere vivo il circuito stesso della riproduzione delle idee, dell’innovazione tecnologica ed estetica necessaria alla competizione nei mercati globali.
Michele De Lucchi, formatosi come architetto nella Facoltà di Architettura di Firenze, nel recentissimo video diffuso dalla rivista INTERNI afferma:
«Dire Architettura non dice tutto del mestiere che faccio.
Nel senso che Architettura è sicuramente la disciplina più completa. Però oggi fare Architettura vuol dire un pò occuparsi di tutto il problema dell’abitare e dell’uomo nel suo ambiente.
Cosicchè sono architetto ma sono anche pittore, scultore, scrittore, fotografo, designer, grafico.
Tutte queste cose insieme.»
Dopo questa citazione che vale, nella sua sinteticità e vastità di orizzonte, molto più di una ogni altra presentazione, lasciamo volentieri la parola a Michele De Lucchi, sicuri che saprà parlare a quanti – numerosissimi – sono presenti nell’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Ferrara.
La nostra Facoltà – da quest’anno – è anche Facoltà di Design che deve individuare il suo percorso istituzionale per crescere ed affermarsi nell’affollato panorama della formazione universitaria nazionale.
In tale quadro il perseguimento di una identità del percorso didattico unitamente all’avvio di linee di ricerca strategicamente orientate, risultano per il nuovo Corso di design di Ferrara passaggi fondamentali e irrinunciabili al suo radicamento rispetto tessuto economico regionale e nazionale.
Ci piacerebbe avere al nostro fianco anche nel futuro Michele De Lucchi, per il suo ruolo di affermato designer internazionale e di Docente ordinario presso il Politecnico di Milano dove insegna Design degli interni.
Ringrazio dell’attenzione e passo la parola a Michele De Lucchi per la prolusione al Corso di laurea in Design del Prodotto industriale dell’AA. 2009-2010.

Alfonso Acocella

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22 Dicembre 2009

Eventi

Michele De Lucchi, “I nostri orribili meravigliosi clienti”
Lectio 5 novembre 2009, Facoltà di Architettura di Ferrara

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Michele De Lucchi in conferenza a Ferrara

Il saluto inaugurale del Preside prof. Graziano Trippa agli studenti di Design del prodotto Industriale, nuovo corso di Laurea istituito quest’anno dalla Facoltà di Architettura di Ferrara, ha voluto ospite l’architetto-designer Michele De Lucchi, ferrarese di origine e oggi protagonista della scena internazionale.

«Per un artista le ricerche di mercato sono ridicole. Per un designer sono fondamentali. Se un artista si concentra verso l’interno su una visione del mondo, il designer lo fa verso l’esterno, verso gli altri. Un artista dipinge un quadro, lo guarda e dice “Non è bello, ma esprime perfettamente la mia visione interiore”. Il designer dipinge un quadro, lo guarda e poi lo gira verso il pubblico e chiede: “Vi piace? No? Allora lo cambio”».
Con questa citazione dell’artista americano Rich Gold, autore del saggio “Le leggi della pienezza. Creare, innovare, produrre cose”, il prof. Alfonso Acocella introduce alla conferenza del maestro ed avvia una riflessione sul rapporto tra arte e design. È ancora possibile un legame tra le due?
È Michele De Lucchi a tratteggiarci la figura del designer attraverso il racconto dell’incontro con i suoi “clienti”.
«Noi siamo tutti progettisti. Siamo impegnati ad immaginarci una vita dell’uomo migliore su questo pianeta. […] Noi designer non la possiamo migliorare se non abbiamo dei clienti. Noi stessi siamo clienti e progettisti. Dobbiamo vivere con loro e sono al contempo orribili e meravigliosi».
De Lucchi avvia così la prolusione, presentando i “clienti” non tanto come entità fisiche ma come passaggi di stato fondamentali nella sua crescita umana e progettuale.
Primo cliente individuato è “il signor identità”. Progettare nel campo dell’industria significa ricercare l’identità, conferire personalità, individuare specificità affinché l’azienda produttrice sia riconoscibile. Se le cose non sono riconoscibili, non esistono.

Scorriamo i principali passaggi della produzione creativa del maestro.
Durante gli studi universitari a Firenze, tra i monumenti antichi e l’incontro con le correnti di architettura contemporanee, De Lucchi ha conosciuto “il signor spirito del tempo”. Condizione necessaria per il progettista è nutrire una sensibilità globale nei confronti del proprio tempo. Se non è in grado di afferrarlo è allora “fuori tempo”, non in sintonia con il sistema organizzativo industriale e soprattutto non è in grado di captare i messaggi che la cultura dell’uomo rivela.
La prima esperienza come designer-progettista, dopo il conseguimento della laurea in Architettura a Firenze è stata quella dell’“architettura radicale”. Quest’ultima corrisponde a ciò che in arte si chiama “arte concettuale”. Come gli artisti si interrogavano sul significato dell’arte e sul servizio che essa offriva alla società, non producendo più quadri e sculture ma “idee”, così gli architetti e designer individuavano il senso del proprio lavoro nello stimolare la creatività altrui.
Dopo il concettualismo degli anni ’70, De Lucchi approda propriamente alla professione di designer. «Essere designer significa sì disegnare le forme delle cose ma come mestiere è in realtà molto più profondo, scava al di sotto della forma stessa delle cose».
Design e architettura sono strumenti di espressione personale. All’interno di ogni prodotto industriale, anche entro quelli in apparenza più freddi, vi è una parte del credo, della filosofia del designer che lo ha ideato. Il prodotto è quid della comunicazione.
Sotto la guida di Ettore Sottsass, De Lucchi individua la necessità fisica di creare oggetti piccoli, facili da produrre e diffondere. Disegna allora la sua prima lampada, “Sinerpica”, per Alchimia, nel 1978; fioriscono poi le sette collezioni della linea “Memphis”. Ed è grazie a questa esperienza che s’imbatte nella “signora libertà”, il cliente che lo introdurrà anche al rapporto con la moda.
Nel 1979 con Ettore Sottsass si lega all’Olivetti dove incontra ancora un nuovo cliente “la signora tecnologia”. Tecnologia: sempre nuova nel futuro e sempre vecchia nel presente. Se il ruolo dell’artista nel tempo antico era quello di mostrare la bellezza della natura, il compito del designer oggi è rivelare la bellezza dell’industria. Costui si serve proprio della tecnologia per industrializzare la sua idea.

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Michele De Lucchi, con Alberto Nason, lampada Bonne Nuit, Produzione privata, 2009

Ma è solo nel suo laboratorio personale e nella collezione unica da lui realizzata, denominata “Produzione Privata”, che Michele De Lucchi può incontrare “la signora sperimentazione” e “il signor artigianato”. Due entità che non possono esistere indipendenti l’una dall’altro. Oggi far artigianato è fare sperimentazione. L’artigianato italiano può fare il lavoro di sperimentazione per la grande industria, diventarne il laboratorio ideale e impedirne il danneggiamento. L’artigiano acquisisce fondamentale esperienza dall’errore commesso e ciò consente di evitare il medesimo nel processo produttivo finale.
Sono ancora molti i clienti che il designer deve affrontare.
Il “signor intrattenimento culturale”, per esempio, è il cliente di cui ha più bisogno la nostra società. La cultura si diffonde per piacere. Se il piacere non c’è, è solo sforzo di conoscenza ma mancano lo stimolo intellettuale e la curiosità.
“Signor stile”, “signora energia”, “signor orgoglio nazionale”, “signora natura”, “signora proporzione” e “signora dimensione”, “signor spazio”, “signora storia” e “signora luce”… e infine un cliente che quando si crede di averlo raggiunto scappa sempre, il “signor futuro”.

Il tempo, nel buio avvolgente dell’Aula Magna, scorre veloce, scorrono le immagini del protagonista, nel silenzio la voce suadente dell’architetto inebria il pubblico. Il maestro, figura imponente, lunga barba, si svela uomo di grande sensibilità, attenzione, umanità.
«Il cliente più difficile, conclude, è “la signora coscienza”, quella dell’autore… essa è gentile ma estremamente esigente».

Marco Cicognani e Giampaolo Landolfi

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18 Dicembre 2009

Opere di Architettura

Piazza San Fermo ad Almè, Bergamo
Attilio Stocchi e Dimitri Chatzipetros

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Uno scatto fotografico ravvicinato del Serpentino della Val Malenco.

Un’idea romantica guida in modo subliminale il pensiero sotteso al progetto di questa piazza italiana, Piazza San Fermo ad Almé in provincia di Bergamo, romantica nei sensi sia più emotivi ed epidermici, sia più storici e filosofici: vale a dire l’immagine inconsciamente diffusa che vuole l’architettura medievale ben accompagnata da una ricca presenza naturale, di vegetazione spontanea e rigogliosa. Sulla piazza spicca infatti la figura della torre medievale, addomesticata agli usi civili nel corso del tempo, i cui caratteri erano come trattenuti ed imbavagliati, quando accostati alle sole essenze arboree puntuali dei cortili limitrofi. L’architetto Attilio Stocchi, il progettista chiamato ad intervenire, in questo caso assieme a Dimitri Chatzipetros, pensa allora ad un prato verde antistante la torre, ma realizzato con un materiale tipico degli spazi pubblici italiani, quale quello lapideo. Questa pertanto la genesi più istintiva dell’intervento, chiamiamola appunto l’idea. Viene poi subito di seguito la traduzione dell’idea in progetto, secondo i dettami della buona tecnica e dell’arte del costruire.
Ci spiega Stocchi come, in massima sintesi, il suo approccio al progetto per lo spazio pubblico coincida con il rinvenimento di motivi storici attinenti lo spazio specifico – ciò che lui definisce il pretesto – ed in parallelo la percezione dei contenuti geografici, naturali ed ambientali rientranti invece nella sfera del contesto. In questo caso la presenza medievale è al contempo pretestuale e contestuale. Costituisce infatti pretesto per le sensazioni che evoca, mentre costituisce contesto per l’insieme di saperi costruttivi che rappresenta. Nella torre fanno ancora mostra di sé le originarie pietre angolari: poste alla base dei vertici dei muri correnti sulla base quadrilatera, portano simbolicamente con sé, tradotto in semplici gesti di lavorazione, il sapere stereotomico medievale, e con esso il sapere matematico applicato alla tecnica costruttiva.
Nella costruzione del prato lapideo i progettisti cercano inoltre la varietà come in natura, e come in natura la declinano secondo la regola scientifica. Scelgono il Serpentino della Val Malenco, per altro una pietra locale date le brevi distanze dalle cave ugualmente lombarde; lo scelgono nelle tre tipologie: Classico, Vittoria e Giada, a loro volta differentemente trattate secondo le lavorazioni superficiali di sabbiatura, bocciardatura e water-jet. Combinando tipologia e lavorazione contiamo così nove possibili varianti.

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La tabella guida alla comprensione delle logiche numeriche alla base del progetto.

Tali varianti sono poi moltiplicate incrociando questi due dati con quelli dimensionali delle singole lastre, facenti riferimento per i propri lati alle leggi dei numeri primi. Anche l’alternanza fra le lastre è guidata dalla regola semplice per cui dalla somma di due numeri primi e sottraendo un’unità, si ottiene un nuovo numero primo. Pure il giunto fra gli elementi di posa partecipa dell’insieme di rimandi numerici. Ne scaturiscono 125 lastre diverse, disposte a casellario su di una griglia per ascisse ed ordinate orientata secondo la giacitura dei lati principali della piazza. Le lastre di maggiore dimensione si concentrano al centro dello spazio pubblico; si raffittiscono invece sui lati, in corrispondenza dell’imboccatura dei percorsi – la piazza, per come disegnata planimetricamente, pare davvero ricalcare gli schemi di Camillo Sitte.
Le sedute sono realizzate su disegno, in legno di iroko e sostegni in bronzo. Completano la superficie pavimentale le caditoie ricavate nel medesimo materiale lapideo, l’illuminazione a raso, le presenze arboree, ed i vari inserti per le manutenzioni delle reti sottostanti.
Verde, nelle varie gradazioni, è sicuramente la connotazione di questo spazio a rimanere più impressa nella mente di chi l’attraversi e lo fruisca. Il termine viridis, nella lingua latina ancora in uso medievale, come preferiscono i progettisti, contestualizza ancor più l’intervento, storicizzando già nei termini le pietre di nuova posa. Non deve essere secondario, per il verde e per la lettura di quest’opera, il fatto di trovare nel magenta il proprio colore complementare: vale infatti, discendendo dalla teoria alla pratica, l’accostamento delle tonalità determinate dalla clorofilla, a quelle dal rosa al rosso mattone che ora siamo abituati visivamente e mentalmente ad attribuire al costruito pre-rinascimentale. La chimica degli elementi divenuti pietra nei millenni e racchiusi ora nelle lastre pavimentali, li porta variamente a risplendere in combinazione ai riflessi del sole e dell’acqua cadente, con i modi delle gemme vulcaniche e degli smeraldi, toccando quindi anche le corde del magico e degli elementi fantastici di letteratura medievale. È come fatta propria l’idea romantica d’approccio all’Antico di John Ruskin, secondo cui è la natura a donare la vera gloria agli edifici, a conferire quella dorata patina del tempo in cui dobbiamo cercare la vera luce, il vero colore, e la vera preziosità dell’architettura.

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La vista dall’alto del calpestio della piazza.

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di Alberto Ferraresi

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Vai al sito di Attilio Stocchi

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16 Dicembre 2009

Pietre d`Italia

IL VALORE DELLE PIETRE ITALIANE
Marmomacc Best Communicator Award 2009

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Stand Iconcig al Marmomacc 2009. Dettaglio del muro in pietra Piasentina.

«Come circonda Firenze una campagna magra ed asciutta, fatta di pietra serena e di pietra forte, così l’architettura fiorentina si lega nelle medesime pietre a motivi di grazia e di vigore. Ma tutta l’Italia è un campo d’eccezione, aperto a chi voglia studiare anche questo rapporto tra la Terra e l’Uomo, seguendo le pietre dalla natura all’arte: una storia senza pari che ha disseminato decine di città nei luoghi più svariati; la costituzione geologica ha offerto ai costruttori ogni sorta di rocce; gli architetti (quali e quanti architetti!) hanno vissuto e fissato lo spirito dei tempi e delle regioni».

Con queste parole, nella prefazione alla prima edizione del suo volume “Le Pietre delle Città d’Italia” (1953), Francesco Rodolico ci introduce alla consapevolezza della varietà litologica della nostra penisola, caratterizzata da una grande ricchezza di situazioni ambientali e paesaggistiche, concentrate in una ristretta area geografica e correlate ad altrettante particolarità geologiche, con decine di rocce scavate, commercializzate e messe in opera da secoli come pietre da costruzione. Date le distanze contenute, nessun territorio italiano, di montagna o di pianura, ha rinunciato nel tempo a utilizzare i materiali litici per la sua edilizia diffusa o almeno per le sue architetture più emblematiche, facendo sì che all’abbondanza di rocce corrispondesse nell’intero paese una simmetrica stratificazione variegata di tradizioni costruttive locali in pietra.
Così fra i molti materiali lapidei e i relativi luoghi di provenienza si sono creati forti legami identitari, rispecchiati da un’onomastica emblematica: granito di Baveno, Rosso di Verona, pietra di Luserna, Giallo di Siena, pietra di Prun, pietra di Vicenza, Bianco di Carrara sono solo alcune delle denominazioni assunte storicamente dai diversi litotipi italiani, a comunicare con immediatezza una varietà più che mai interessante e degna di valorizzazione.
Ai materiali più pregiati, come i marmi colorati e i graniti italiani, si somma quindi una miriade di pietre locali, più umili, spesso poco note, ampiamente utilizzate in passato poiché economiche e di facile accessibilità e al centro nell’ultimo decennio di un processo di riabilitazione commerciale diffuso e molto promettente.

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Stand Vaselli Marmi al Marmomacc 2009. Dettaglio dell’allestimento e dei pezzi di design in travertino di Rapolano.

A questo fenomeno la fiera veronese Marmomacc dedica da tempo un’attenzione specifica, suggellata quest’anno dall’assegnazione del prestigioso Best Communicator Award a due aziende fortemente impegnate in percorsi di innovazione, a partire dal radicamento a contesti estrattivi di pietre storiche dell’identità italiana. Il premio della rassegna scaligera, riservato alle realtà produttive che meglio sanno presentare nella cura dell’allestimento dello stand la propria immagine e i risultati della propria ricerca, è andato infatti ex aequo a Iaconcig di Torreano di Cividale (Ud) e a Vaselli Marmi di Rapolano Terme (Si).
L’azienda friulana è rappresentativa del distretto di escavazione e lavorazione della pietra Piasentina, una calcarenite grigia caratterizzata da venature bianche e da sfumature brune e dorate. Questa pietra è uno dei più antichi materiali da costruzione dell’Italia settentrionale e di recente è stata dotata di un disciplinare tecnico di qualità, accompagnato da un marchio comunitario di origine controllata e certificata. Lo spazio espositivo di Iaconcig, disegnato da Giovanni Vragnaz, ha valorizzato la pietra Piasentina attraverso la costruzione di un muro traforato composto da elementi litici sommariamente riquadrati, alternati a correntini di legno a riprodurre una catasta rustica, capace di esaltare le qualità cromatiche e materiche del litotipo.
Vaselli Marmi, invece, è una realtà produttiva giovane e dinamica, che ha saputo individuare nuove vie applicative nel settore dell’interior design per il Travertino di Rapolano, materiale storico toscano. Lo stand dell’azienda all’interno di Marmomacc 2009 è stato caratterizzato da un’esile palizzata costituita da sottili lastre di travertino rapolanese, posta a racchiudere una raffinata collezione di elementi per l’ambiente
bagno, sempre realizzati in travertino e firmati dai designer Emanuel Gargano e Marco Fagioli.
Nell’ambito dell’attenzione riservata dalla fiera scaligera alle pietre legate alle culture materiali locali, va segnalata anche l’iniziativa “Percorsi della pietra in Puglia” che, attraverso una mostra e un workshop, ha restituito al pubblico lo stato di avanzamento del rilancio delle numerose pietre di questa regione, iniziato da tempo e di recente approdato all’istituzione del Distretto produttivo lapideo pugliese, cui aderiscono aziende, enti locali, organizzazioni sindacali, università e centri di ricerca privati.
Friuli, Toscana e Puglia dunque, cui si sono aggiunte altre regioni ben rappresentate nella fiera, quali il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, il Lazio, la Sicilia e la Sardegna, a restituire la consapevolezza di un mondo litologico italiano assolutamente ricco, punto di forza dell’eccellenza nazionale e risorsa da valorizzare suscettibile di ulteriore, oculato, sfruttamento.

di Davide Turrini

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Vaselli
Marmomacc

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15 Dicembre 2009

News

PIETRE DI SICILIA
La forma sensibile della pietra

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14 Dicembre 2009

News

FAF incontra Casalgrande Padana

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Giornata dedicata alla CERAMICA per la classe del Corso di Laurea in Disegno del Prodotto Industriale, Università di Ferrara nell’ambito del Laboratorio di metodologie per definizione di progetto.
Ospiti di Casalgrande Padana, l’importante realtà produttiva reggiana, lo spazio multifunzionale del Creative Center, adibito per l’occasione a sala conferenze, ha accolto il numeroso gruppo di studenti.
A più voci il programma di incontri. Rolando Giovannini, direttore dell’Istituto d’Arte per la Ceramica “Gaetano Ballardini” di Faenza, quale esperto di storia del Design Ceramico contemporaneo, ha aperto la giornata con una riflessione sul tema “La classificazione dei prodotti ceramici”, spaziando dalla definizione più strettamente tecnica del materiale al design dello stesso, riconoscendone stili e tendenze, osservandone de visu campioni anche rari della personale collezione.
L’architetto Veronica Dal Buono, dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, ha presentato “Espressione Ceramica. Il linguaggio del materiale tra tecnologia e creatività”, sintesi di un percorso personale di lettura e interpretazione di questo materiale che, partendo dalla tradizione, rinnova la propria forza nel presente quale “materiale progettato” che unisce la ricerca materica spinta nelle sue proprietà tecnologiche ottimizzate all’alto valore figurativo e di asseconda mento di stile del presente.

L’avvicinamento del mondo della formazione a quello della produzione è avvenuto grazie a Casalgrande Padana. L’azienda non solo ha introdotto gli studenti alla comprensione del grande sistema organizzativo che sottende la produzione, con i suoi forti meccanismi di controllo e prefigurazione accompagnati da una costante attenzione per la comunicazione non solo del prodotto ma anche della cultura di progetto, ma anche aprendo le porte del proprio stabilimento di produzione illustrando in ogni sua fase, dal laboratorio alla verifica finale del prodotto, il lungo percorso che trasforma le materie prime in materiale, in prodotto tecnologico protagonista dell’habitat.

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13 Dicembre 2009

Eventi

OLTRE IL COLORE
Presentazione del libro

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9 Dicembre 2009

Opere di Architettura

Costruzione e materiali nell’opera di Fernand Pouillon*

Desidero ringraziare l’INAMA per l’energia culturale e organizzativa investita in questo importante convegno su Fernand Pouillon. Un ringraziamento particolare al Président de Séance, prof. Jean Lucien Bonillo la cui passione e tenacia hanno permesso di portare a termine un’impresa credo tra le meno facili: fare uscire dall’ombra una figura forse ancora molto scomoda nel vostro paese ma così importante per la cultura architettonica internazionale attraverso un pubblico “Colloque” sicuramente il più importante sull’opera di questo architetto.
Vorrei particolarmente ringraziare il prof. Bernard Huet il quale tra i primi ce lo ha fatto conoscere e amare.
Quando mi sono accinto a preparare questo breve intervento su “Construction et matériaux dans l’oeuvre de Fernand Pouillon” mi sono accorto che il tema, apparentemente circoscritto, era in realtà molto vasto, al punto che ho deciso di ridurlo ad un singolo aspetto che tuttavia ritengo centrale e assolutamente essenziale nella sua opera: la costruzione in pietra.

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Ritratto di Fernand Pouillon

Fernand Pouillon è stato uno dei pochi architetti della nostra epoca che ha intimamente e inscindibilmente legato la propria concezione architettonica al carattere costruttivo e ai materiali, in modo particolare alla pietra, fino a sviluppare da questi un proprio linguaggio originale.
Potrebbe forse sembrare una divagazione far discendere l’architettura di pietra di Pouillon dal suo concetto di città, tuttavia sembra anche evidente che la scelta di questo materiale non consegue ad una pratica di apprendistato acquisita presso i suoi maestri Perret e Beaudouin né tanto meno è figlia delle ideologie architettoniche del tempo le quali privilegiavano in modo pressoché esclusivo i materiali “moderni”, cemento armato, ferro, vetro.
I motivi della scelta vanno forse ricercati nel ruolo collettivo e sociale che Pouillon assegnava all’architettura, ossia nel primato che gli attribuiva alla dimensione pubblica urbana più che al grande gesto architettonico, assegnando quindi un ruolo centrale al decoro, alla durevolezza e alla bellezza, prerogative queste dei materiali lapidei.
Gran parte dei complessi residenziali da lui realizzati in Francia e in Algeria prima della crisi del ‘61, erano formati da edilizia economico-popolare e tutti costruiti con quantità massicce di pietra, ciò che li poneva in modo scandaloso al di fuori delle convenzioni e della prassi costruttiva dell’epoca.
La pietra invece, materiale tradizionalmente usato per gli edifici pubblici più rappresentativi della città, diviene nella concezione di Pouillon l’attore di una nuova monumentalità estensibile a tutto il tessuto urbano.
E’ quanto esplicitamente lui stesso afferma parlando di Climat de France, la celebre «piazza delle 200 colonne» di Algeri, quando dice “Cette ville pour les plus pauvres serait un monument” e più avanti “Pour la première fois peut-être dans les temps modernes, nous avions installé des hommes dans un monument…”. Analogamente, per Meudon-la Foret, ricorda “Je dressai un projet monumental, cyclopéen, pour loger les moins fortunés”.
La pietra dunque corrisponde ad un programma di ideologia urbanistica, da lui espresso nel concetto di “ordonnance”, che si articola in modi e intensità diversi ma con intenzioni analoghe in tutti gli interventi a scala urbana effettuati da Pouillon.
Se questa fu l’intenzione, la sua applicazione non sarebbe stata possibile senza l’esistenza di condizioni particolari sul piano del mercato edilizio e senza le straordinarie capacità produttive messe in atto da Pouillon.
L’uso tettonico della pietra per le strutture murarie era, nel primo dopoguerra almeno fino agli anni cinquanta, comunemente diffuso nei cantieri di molti paesi europei storicamente legati a questa tradizione costruttiva come la Francia, l’Italia e la Spagna.
Si trattava però soprattutto di murature in pietra grezza, a pezzatura irregolare, che venivano finite con intonaco mentre i solai erano realizzati in cemento e laterizio. Questa disponibilità di pietra grezza era favorita da costi ancora bassi di produzione mentre ben più costoso e praticamente fuori mercato era il blocco di pietra lavorato da lasciare a vista in facciate continue.
Più frequentemente per l’edilizia economicamente medio alta si usava la pietra da rivestimento.
Negli stessi anni si stava avviando in Francia un massiccio programma di edilizia sociale che aveva come perno la prefabbricazione pesante con uso di pannelli in cemento e impianti tecnici prodotti industrialmente secondo norme e criteri di modularità pensati per abbattere i costi.
La sfida di Pouillon, come sappiamo, fu la creazione di un processo costruttivo alternativo, fondato sull’uso globale della pietra, attraverso l’impiego di materiale lapideo sia a livello strutturale, come massa muraria portante o come elementi pilastrati, sia a livello compositivo nel disegno delle facciate.
Questo processo si avvaleva del concorso di nuovi e geniali sistemi di lavorazione e di applicazione del materiale ma anche di una straordinaria capacità di organizzazione e conduzione del cantiere da rendere competitive sul mercato le costruzioni.

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Marsiglia, Ricostruzione del quartiere Vieux-Port, 1951-1955

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Marsiglia, complesso residenziale La Tourette, 1948-1953. A destra particolare del sistema costruttivo Pierre Banchée)

La messa a punto del processo fu graduale. In una prima fase fu usato il sistema della “pierre banchée” nel quale la pietra tagliata a lastre sottili costituisce la casseratura (coffrage) che, sigillata con staffe in acciaio galvanizzato, permette la colatura di cemento di debole dosaggio. In tal modo le lastre formano corpo unico con il cemento solidificato evitando il loro successivo ancoraggio. Il costo di questo nuovo sistema, usato sia per La Tourette di Marseille sia per gli alloggi ad Aix e di Boulogne-Paris, era all’incirca corrispondente a quella del cemento liscio colato nelle casseforme in legno.
L’uso della pietra massiccia, che all’epoca veniva ancora lavorata manualmente, comportava anch’esso un notevole problema di costi riguardanti il taglio e la lavorazione del materiale grezzo per ottenere una qualità di finiture accettabile nella costruzione di muri e pilastri “a vista”.
Attraverso il sistema meccanico escogitato da Paul Marcerou, direttore delle cave di Fontvieille e amico di Pouillon, fu possibile estrarre e tagliare direttamente in cava dei blocchi di calcare sufficientemente squadrati e precisi da consentire di innalzare muri e pilastri continui fino a undici piani. A questo riguardo egli ricorda che l’invenzione o meglio” la trouvaille” di Marcerou “fut d’adapter les machines qui travaillaient l’acier ou le bois, à la pierre tendre ou à la pierre dure. Il achetait donc de vielles machines, les simplifiait, fixait des pointes de tungstène sur les scies, les chaînes, les rabots, et taillait ainsi facilement, sans refroidissement par eau”(F.P. Mémoires d’un architecte).
Da questa prima esperienza furono perfezionate le macchine e messe in grado di sostenere una vasta produzione in tempi assai brevi. Gli eloquenti esempi di Diar es Saada a Algeri e di Meudon la Foret a Parigi ci mostrano come la modularità dei blocchi e la loro precisione costruttiva consentiva a muri e pilastri eretti “pietra su pietra” di reggere, collaborando insieme a muri interni in mattoni forati, i solai in cemento armato.
La pietra così lavorata in modo meccanico con un semplice taglio a sega si era trasformata in prodotto industrializzato ed era divenuta costruttivamente alternativa ed economicamente concorrenziale ai prodotti prefabbricati in cemento, tanto che lo stesso Pouillon osava chiamarla “pietra prefabbricata”.
Certo la pietra così prodotta, pur rimanendo un materiale naturale con le caratteristiche meccaniche e gli attributi di nobiltà e durevolezza che le sono propri, era divenuta qualcosa di diverso dalla tradizionale pietra da costruzione: si era sottratta alla individualità del lavoro artigianale, necessitava quindi di essere impiegata con un proprio linguaggio. Su tale questione si è sviluppato a mio avviso l’aspetto più geniale dell’opera costruttiva di Pouillon. Lo stretto rapporto tra linguaggio, espressione, tecnologia e condizioni di produzione non rende facile sezionare e separare gli elementi che concorrono alla formazione della sua architettura, tuttavia poiché la pietra vi assume un ruolo fortemente determinante cercheremo di individuarne alcuni.
Innanzitutto il rapporto tra struttura e materiali lapidei.

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Algeri, complesso residenziale Diar El Machoul, 1953-1954

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Algeri, complesso residenziale Climat de France, 1954 (Elaborazione grafica di G. Barazzetta, N. Braghieri, G. Di Simmeo – Rapporti numerici-dimensionali, da B. F. Dubort, 1986)

L’architettura di Pouillon si contraddistingue per la presenza pressoché costante di due elementi strutturali portanti, il muro e i pilastri, di cui il primo costituisce l’elemento volumetrico di chiusura mentre i secondi contrassegnano il lato aperto dell’edificio dove intervengono talvolta elementi di variabilità o di maggiore complessità plastica che fanno assumere alle pareti il ruolo di facciata.
Questa coppia di elementi si pone però sempre in un rapporto rovesciato rispetto a quello dell’architettura tradizionale della città ossia il muro compatto e muto è rivolto nelle sue opere verso l’esterno, verso la strada, mentre le facciate aperte guardano gli spazi interni che però spazialmente non hanno più la connotazione dei cortili chiusi.
Certamente nessun materiale esprime e comunica in modo altrettanto efficace e possente la tettonica degli edifici come la pietra. Il linguaggio essenziale dell’architettura di Pouillon, che esclude ogni superfluo formalismo fino alla cancellazione pressoché totale della decorazione, è ancor più esaltato in questo suo aspetto dalla stereometria delle pareti in blocchi lapidei e dalla profondità che lo spessore del materiale conferisce alle aperture. D’altra parte la modalità stessa dell’apparecchiatura del materiale concorre alla semplificazione e alla essenzialità dei tracciati e dei volumi creando uno stretto rapporto tra struttura e forma.
Come la concezione costruttiva anche il linguaggio architettonico di Pouillon non ha motivazioni nostalgiche ma nasce da una originale interpretazione della modernità mantenendo al contempo la forza evocativa della grande architettura classica.
Si è parlato giustamente di “razionalismo” per la sua opera, non solo riguardo alla metodologia compositiva ma anche per il riferimento a quella esperienza storica rintracciabile nelle figure concettuali e strutturali utilizzate nella costruzione. Tuttavia attraverso la pietra le partiture architettoniche dei sui edifici acquistano un proprio significato che le collega alla grande tradizione classica degli “ordini”.
Ciò che il razionalismo aveva voluto evidenziare nella orditura in cemento armato del “telaio” messo a nudo, ossia l’estrema riduzione dell’edificio alla propria “ossatura”, acquista invece nell’architettura di Pouillon un carattere “muscolare” attraverso la particolare sostanza della pietra come si trattasse delle membra di un corpo. E per ottenere questo carattere egli aveva eletto a proprio materiale privilegiato la “Pierre du Pont du Gard”, la pietra usata dagli antichi romani nelle opere monumentali in Provenza. Così le grandi pilastrature e le sequenze architravate acquistano significati e valenze di volta in volta diversi.

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Parigi, complesso residenziale a Pantin, 1957

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Parigi, complesso residenziale a Meudon-La Foret, 1959

A Pantin e Montrouge la giustapposizione plastica di pietre miste a marmo dei cortili interni evoca l’ordine gigante che forma la “travatura continua” dei palazzi italiani del manierismo cinquecentesco. A Meudon-la-Foret le immense pilastrate alludono negli scorci alla reiterazione delle scansioni verticali della parete nella possente architettura di templi egizi.
A Climat de France i ritmi e le misure delle 200 colonne hanno la severa armonia di una “agorà” o di un “meidan”.
Vi è poi una stretta relazione tra la costruzione in pietra e l’astrazione dei numeri. Le misure giocano un ruolo fondamentale nel rapporto tra le membra dell’edificio in una logica compositiva più pregnante di quanto non consenta la modularità della prefabbricazione. Costruire pietra su pietra significa infatti costruire con i numeri e trovare le regole che li governano.
E’ ben nota la serie di numeri che ha guidato Pouillon alla progettazione del meraviglioso colonnato e di tutta la piazza di Climat de France, desunti in analogia con il “meidan” di Ispahan, ma rapportati a blocchi di pietra di un metro per un metro per un metro.
L’“oggettività” dell’ordine compositivo intrecciandosi alla essenzialità degli elementi dà luogo a una sorta di arcaismo, ossia a quella componente che toglie l’architettura di Pouillon dalle mode, delle correnti e dalla ossessiva autoreferenzialità che caratterizzano invece l’opera degli architetti moderni e soprattutto contemporanei. Ancora una volta la pietra gioca un ruolo determinante su questo attributo perchè allo stesso tempo conferisce stabilità e mutevolezza agli edifici. Specie quando è priva di ornamento, la pietra concentra su se stessa tutta la forza espressiva dell’architettura rendendola “senza tempo” ma cangiante nel tempo sotto la luce naturale.
Possiamo dire che l’identità stessa dell’architettura di Pouillon risiede in ultima analisi nella perfetta “ierogamia” tra linguaggio architettonico e sostanza materiale della costruzione.
La sua capacità di trasformare e dominare in senso creativo linguaggio e processo costruttivo costituisce ancora il fondamento e l’essenza del “magistero” dell’architetto, ossia dell’arte di “ben costruire”. Sotto questa angolatura il rapporto tra la sua opera e la tradizione ci appare quanto mai appropriato e profondo, privo di nostalgia e ricco di creatività.
Per questi e molti altri aspetti l’opera di Pouillon è ancora attuale.
Alcuni anni or sono a Verona, nella fiera internazionale Marmomacc gli è stato attribuito “ad memoriam” il Premio Internazionale Architettura di Pietra. Oggi possiamo constatare come l’interesse diffuso per i materiali costruttivi e il loro uso qualitativo stia diventando sempre più un tema centrale nell’architettura mentre si assiste a un più maturo atteggiamento nell’uso della pietra, anche grazie all’insegnamento di Pouillon. L’ultima edizione di questo premio, avvenuta lo scorso autunno, ha visto per la prima volta selezionati ben tre edifici costruiti con l’uso di pietra in senso tettonico e a grandi blocchi, potremmo dire “alla Pouillon”anche se con linguaggi molto diversi, per opera di tre autori di grande notorietà: Mario Botta, Eduardo Souto De Moura e Peter Zumthor. Mi è sembrato un segno di audacia e anche di buon auspicio per l’architettura.

diVincenzo Pavan
* Intervento al “Colloque Fernand Pouillon architecte 1912-1986”all’ Hotel du Département des Bouches-du-Rhône, Marseille, 29/30 marzo 1996.

FERNAND POUILLON
Cenni biografici

1912: Fernand Pouillon nasce a Cancon nella Lot-et-Garonne (Sud est della Francia) ma ben presto la sua famiglia si trasferisce a Marsiglia città in cui si svilupperà la prima parte della sua carriera. Frequenta la Scuola di Belle Arti di Marsiglia e l’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi dove si laureerà in architettura nel 1942. Per alcuni anni lavora presso lo studio di Marsiglia di Eugène Beaudouin prima di fondare un proprio studio con Rene Egger.
1934-1939: Realizza una media di circa quaranta alloggi per anno nel mezzo di una crisi profonda della professione dell’architetto.
1946: Costruisce lo stadio municipale di Aix-en-Provence. Inizia in quest’opera ad emergere il vocabolario personale di Pouillon: una modernità in continuità con la storia dell’architettura e dell’ingegneria, la riscoperta dei procedimenti costruttivi ancestrali, la valorizzazione di ogni materiale attraverso la giusta combinazione di tutti i materiali tra loro, il corretto adeguamento delle forme architettoniche all’uso per il quale sono destinate.
1948: Costruisce il quartiere di La Tourette, 260 alloggi che dominano il vecchio porto di Marsiglia, dove sperimenta la tecnica della pietra a lastre usate come cassero della struttura in cemento.
1951-1955: Costruisce il complesso residenziale e commerciale del Vieux Port di Marsiglia dove inaugura l’utilizzo della pietra strutturale (Pierre du Pont du Gard) che costituirà uno dei tratti costruttivi specifici del suo lavoro.
1951: Costruisce il complesso residenziale “200 alloggi” a Aix-en-Provence dove mette in pratica nuovi principi di costruzione che gli permettono un abbassamento dei tempi e dei costi.
1953: Pubblica “Ordonnance”, monografia di Aix-en-Provence realizzata in collaborazione con i suoi allievi, nella quale espone il proprio indirizzo compositivo a livello urbano.
1953-1954: Chiamato ad Algeri dal sindaco Chevallier costruisce i complessi di Diar Es Saada e Diar El Machoul, rispettivamente di 800 e 1800 alloggi popolari.
1954: Conclude la prima parte della sua permanenza in Algeria realizzando il grande complesso residenziale “Climat de France” di 3500 alloggi.
1954-1964: Su incarico del governo iraniano costruisce le stazioni ferroviarie di Tabriz e Machad e due cittadelle militari.
1955: Crea a Parigi il CLN (Comptoir National du Logement), organismo di promozione immobiliare attraverso il quale, pur non apparendo in prima persona (la legge francese all’epoca vietava a un architetto di essere promotore immobiliare) riesce a controllare la realizzazione dei suoi progetti. Acquista anche la ACCM, impresa di carpenteria metallica che diventerà l’impresa utilizzata in tutti i suoi cantieri.
1957: Costruisce il complesso residenziale “Victor Hugo” a Pantin (Parigi) di 300 alloggi.
1958: Costruisce il complesso residenziale “Buffalo” a Montrouge (Parigi) di 500 alloggi.
1957-1963: Costruisce il complesso residenziale “Le Point du Jour” a Boulogne-Billancourt (Parigi) di 2260 alloggi.
1959: Costruisce a Meudon-la-Foret (Parigi) un complesso residenziale di 3000 alloggi.
1961: Pouillon viene arrestato il 5 marzo: a Parigi. I suoi lavori disturbano il sistema immobiliare e quello politico incapaci di risolvere il problema degli alloggi nella Francia del dopoguerra. Al processo che segue cadranno i principali capi di imputazione. Malgrado ciò Pouillon sconta tre anni di prigione, evade, rifugiandosi a Fiesole, per poi costituirsi e presenziare al suo processo. In prigione scrive il romanzo “Les Pierres Sauvages” pubblicato nel 1964.
1971: Viene amnistiato dal Presidente Georges Pompidou. All’uscita di prigione gli viene affidato l’incarico per la città nuova di Créteil presso Parigi, ma, soggetto a pressioni, lascia l’incarico e decide di ritornare in Algeria dove realizzerà un imponente programma di opere per i Ministeri del Turismo, dell’Istituzione, delle Poste e Telecomunicazioni, delle Ferrovie e dell’Ambiente. Gli interventi più importanti comprendono hotel e centri turistici sparsi nell’intero territorio algerino (Algeri, Moretti, Sidi Ferruch, Zeralda, Tipaza, Annaba, Seraidi, Orano, Tlemcem, Ghardaia, Timimoun, Tamanrasset…)
1968: Pubblica les “Mémoires d’un architecte“, Aux Editions du Seuil
1970-1974: Fonda a Parigi la casa editrice “Le Jardin de Flore”
1975-1983: Restaura il castello di Belcastel nell’Aveyron (Francia).
1980: Viene eletto Consigliere dell’Ordine degli Architetti a Parigi.
1982: Viene premiato dalla Biennale di Venezia che gli dedica una mostra.
1983: Ritorna definitivamente in Francia dove apre lo studio Fernand Pouillon.
1984: II Presidente François Mitterrand lo nomina Ufficiale della Légion d’Honneur.
1986: Muore il 24 luglio a Belcastel.

Bibliografia
Libri

D .Voldman, Fernand Pouillon, architecte. Paris, Ed Payot & Rivages, Collection Essais. 2006.
J. Lucan – O. Seyler, Fernand Pouillon architecte, Pantin, Montrouge, Boulogne-Billancourt, Meudon-la-Forêt, Paris, Pavillon de l’Arsenal; Picard, avril 2003.
J.L. Bonillo, Fernand Pouillon, architecte méditerranéen. Marseille, Ed. Imbernon. 2001.
B.F. Dubor, Fernand Pouillon. Milan-Paris Electa Moniteur, 1986.
Edizione italiana: Fernand Pouillon, Architetto delle 200 colonne, Milano, Electa, 1987.

Riviste e pubblicazioni
G. Barazzetta, I cantieri di Fernand Pouillon: le figure e il testo. Milano. Casabella n°728/729, 2004
J. Lucan, Fernand Pouillon Architecte. Paris, AMC, le Moniteur architecture, n°134, 2003
A. Ferlenga, Fernand Pouillon. Le pietre di Algeri. Milano, Casabella, n°706/707, 2002
Fernand Pouillon a Belcastel. La rinascita di Belcastel. Il castello senza tempo dell’architetto,
F. Gautré e C. Sayen, Milano, Casabella. n° 672, 1999. Con un testo di A. Ferlenga.
G. Radicchio, Fernand Pouillon. I quartieri residenziali della cintura parigina, Milano Casabella, n° 639, 1996, con un testo di A. Ferlenga
A. Ferlenga, Le costruzioni turistiche di F. Pouillon nel territorio algerino, D’A, n°12, 1996
B. Huet, L’héritage de Fernand Pouillon, Paris, AMC, n° 71,1996
J. Lucan, Les opérations parisiennes : la leçon de Fernand Pouillon, Genève, Faces, n° 38, 1996
Fernand Pouillon: new foundation of a city, new foundation of a discipline.
A. Ferlenga, Miami, Moderns cities, The New City, n°3, 1996
G. Monnier. A propos du colloque Fernand Pouillon architecte, Techniques et Architecture, agosto /settembre 1996.
V. Spigai, Fernand Pouillon, “Mon ouvre me défendra”, Archint, Venezia 1995
G. Barazzetta, Pouillon in Provenza, itinerario, Milano, Domus, n° 773, 1995
Un projet urbain…malgré eux (les architectes N.d.R.). La reconstruction du Vieux-Port a , J-L.Bonillo, Marseille, Les Cahiers de la recherche architecturale, n° 32-33, 1993
B. Huet, Lo strano caso Pouillon, in Immagini di Pietra, Milano, Electa 1993
G. Barazzetta, Pouillon a Marsiglia, Palermo, In-Architettura, n° 19, 1993
D. Banaudi, Memorie di un urbanista, Milano Costruire, n° 113, 1992
F. Robichon, Pouillon au Point du Jour, D’architectures n° 28, 1992
G. Barazzetta, Le pietre di Arles ad Algeri, Venezia, Phalaris, n° 16, 1991
A. Petruccioli, Fernand Pouillon o il genio della costruzione, Architettura nei paesi islamici, Edizioni La Biennale di Venezia, 1982

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